Che non avessi chissà quali spiccate doti o particolari
caratteristiche, penso lo abbiate capito: ero e sono un ragazzo normale, uno
come tanti, un po’ sbandato forse, ma in fin dei conti abbastanza sveglio. Da
ragazzino, a scuola, vivacchiavo con il mio 6 abbondante, senza aver mai avuto
bisogno di studiare seriamente. Avevo anche fatto la primina, cioè ero andato
alle elementari un anno prima dei miei compagni. L’anno di vantaggio l’ho però
perso in seguito, dato che sono stato bocciato in quinta superiore per assenze.
È che a 18 anni potevo firmarmi da solo le giustificazioni, e potete
immaginare.
Bè, per concludere con un’espressione abusata, diciamo
che ero uno di quei ragazzi, uno di quelli che sono come buona parte delle
leggi italiane: intelligenti, forse, ma non si applicano.
Vi ho già raccontato dei miei primi due anni a Milano,
anni in cui ho cambiato un’infinità di lavori. Ecco, quello che non vi ho detto
è che non li cambiavo certo per scelta mia. Ritardi, litigate, in un caso una
rissa con un cliente. Di solito, quasi sempre finiva che da un giorno all’altro
non mi presentavo più e tanti saluti. Ok, la colpa era mia, lo ammetto, ma va detto
che sinceramente non me n’è mai importato un bel nulla. Il lavoro per me era
solo un passatempo tra un’uscita serale e l’altra. Che poi “uscita” è un
parolone, perché a dire il vero quello che facevamo noi, ragazzi dei quartieri
popolari milanesi, era ritrovarsi in piazzette anonime e spoglie, e passare il
tempo seduti sugli schienali delle panchine, a fumarci canne e a parlare di
quello che avremmo fatto se avessimo avuto qualche soldo in più, se avessimo
svoltato un po’ la nostra vita, se fossimo nati da qualche altra parte, per
esempio in America dei film, oppure se avessimo avuto altri cognomi, altri
ideali, altre vite.
Se volete sapere quando una società è malata, guardate
i sogni dei suoi giovani.
C’è chi sogna di essere, e c’è chi sogna di diventare.
Provo a spiegarmi meglio, se ci riesco. Cosa sognavamo noi? Sognavamo di essere
ricchi, sì, essere, non di diventarlo. Essere. Nemmeno ci azzardavamo ad
immaginare un futuro migliore. La “svolta”, come la chiamavano noi, era pura
utopia, era roba da universi paralleli.
Uso una metafora pokeristica, anche questa un po’ abusata.
Io e i miei amici sapevamo che le carte che avevamo ricevuto non erano quelle
buone, che la mano era già persa in partenza. E se provate a dire che si può
sempre bluffare, significa che non sapete nulla di cosa significhi vivere con
quello stato d’animo. Non ha senso bluffare se il gioco è truccato.
Io, a differenza degli altri, ho avuto il culo che a un
certo punto ho trovato quel lavoro, quello di cui vi ho parlato, perché altrimenti
lo so che avrei fatto una fine uguale a quelle di quei miei amici.
Già, perché i più fortunati si sono schiantati in auto,
correndo come dei matti nel cuore della notte contro un’altra macchina guidata
da qualcuno proprio come loro, entrambi con in corpo tanto di quell’alcol da
stordire una balenottera. Gli altri li ha uccisi il mutuo, i finanziamenti a
tasso zero, qualcuno la droga, qualcun altro la povertà. I restanti, meschini,
li potete trovare ancora lì, su quelle panchine, a farsi divorare dalla noia, dal
tempo, dal sogno di una svolta.
Che poi ve la devo dire tutta, anche questa lavoro,
all’inizio, non era stato nulla di diverso da tutti gli altri. Ci andavo
soltanto perché lo stipendio era decente e non dovevo fare nulla da mattino a
sera. Dopo il primo viaggio in Olanda, però, iniziarono i primi cambiamenti.
Sin dai giorni successivi compresi che il capo aveva
deciso di puntare su di me, prendendomi sotto la sua ala. Dovunque lui si
spostava, io lo seguivo. Divenni la sua ombra. Divenni autista, accompagnatore,
in poche settimane iniziò a darmi compiti sempre più importanti, qualche volta
persino a chiedere la mia opinione su particolari situazioni di lavoro. Io, che
fino a quel momento mi ritenevo un perfetto idiota, iniziai a sentirmi
finalmente buono a qualcosa, e cominciai a impegnarmi come non mai. Lavorare stava
diventando un piacere.
Ma cosa facevate? vi starete domandando.
Bè, tutto e niente. Intendo che la nostra piccola
azienda non aveva un’attività ben definita. Volete sapere di più? Per dirvela
in breve potrei usare l’espressione edulcorata “servizi alle imprese”. Detto
così sembra un lavoro complicato, nella pratica consiste nel risolvere i
problemi della gente. La parola che esprime meglio, secondo me, è “tuttofare.”
La tua azienda aveva problemi di derattizzazione? Chiamavi noi. Ti servivano
soldi e avevi problemi di accesso al credito? Non dovevi far nient’altro che
alzare la cornetta. Problemi coi fornitori? Eccoci qua. Volevi comprare
macchinari sottoprezzo? Li volevi pagare il triplo del proprio valore per
ingrossare le fatture ed evadere le tasse? Volevi ridiscutere il contratto con
i lavoratori in nero? Noi eravamo la soluzione a tutto questo e a molto altro.
Non sto esagerando le cose, funzionava davvero così.
Anzi, anche se non sono più nel giro, vi assicuro che funziona così tutt’ora.
Di legale, come potrete immaginare, c’era poco o niente, ma il tutto veniva
mascherato nel migliore dei modi. Era per questo che eravamo i migliori, era
per questo che tutti ci volevano.
Diciamo che le cose giravano in questo modo: quando
un’azienda aveva bisogno di risolvere un qualche problema da “zona grigia” in
termini di legalità, ecco che allora chiamava noi, e svolgevamo tutto a costo
zero. Dopodiché, tra noi e il cliente si instaurava una collaborazione
duratura: lui delegava a noi qualsiasi problema, anche il più banale, e per
quello pagava profumatamente fatture gonfiate, a volte anche per prestazioni
inesistenti.
In media penso che su dieci servizi offerti, otto erano
legali, uno al limite, e uno totalmente illegale. Insomma, vi è una sottile
linea che divide ciò che si può fare da ciò che non si può, e noi ci danzavamo sopra,
spesso oltrepassandola in modo così netto che, vi assicuro, venire beccati e
finire in prigione era l’ultimo dei nostri problemi. Quello che voglio dire è
che se ti ritrovi a svolgere attività illecite, la tua più grande
preoccupazione non è la legge. È la concorrenza.
Se era possibile, trovavamo direttamente noi una
soluzione, altrimenti ci rivolgevamo ad altri. Una cosa è certa: i capi
dell’azienda, quelli veri intendo, avevano le spalle più che coperte.
Il lavoro d’ufficio era delegato alle attività
tranquille, e nemmeno sapevamo di cosa facessero realmente quelli più in alto
di noi, Anzi, non saprei dire se il lavoro d’ufficio fosse realmente utile
all’impresa, o se fosse semplicemente uno dei modi per dare una parvenza di
candore.
Avete capito adesso? Se non ci state ancora capendo molto
tranquilli, io stesso ci misi mesi ad orientarmi.
Se penso a quelle prime settimane da “scagnozzo” del
capo, ne potrei raccontare così tante che, dato che ho una buona memoria,
potrei facilmente rendere la vita difficile a diversi imprenditori.
Qui, racconterò cosa accadde la notte in cui realmente
capii cosa facesse la mia azienda. Forse, quella è anche la notte in cui capii
per la prima volta chi fossi realmente io.
Questa storia ha per protagonisti Beethoven, uno
zombie, una pistola e un pozzo. Se volete sapere chi eravamo noi, credo non vi
sia modo migliore per farvelo capire.
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