mercoledì 11 novembre 2015

Capitolo 7

Che non avessi chissà quali spiccate doti o particolari caratteristiche, penso lo abbiate capito: ero e sono un ragazzo normale, uno come tanti, un po’ sbandato forse, ma in fin dei conti abbastanza sveglio. Da ragazzino, a scuola, vivacchiavo con il mio 6 abbondante, senza aver mai avuto bisogno di studiare seriamente. Avevo anche fatto la primina, cioè ero andato alle elementari un anno prima dei miei compagni. L’anno di vantaggio l’ho però perso in seguito, dato che sono stato bocciato in quinta superiore per assenze. È che a 18 anni potevo firmarmi da solo le giustificazioni, e potete immaginare.
Bè, per concludere con un’espressione abusata, diciamo che ero uno di quei ragazzi, uno di quelli che sono come buona parte delle leggi italiane: intelligenti, forse, ma non si applicano.
Vi ho già raccontato dei miei primi due anni a Milano, anni in cui ho cambiato un’infinità di lavori. Ecco, quello che non vi ho detto è che non li cambiavo certo per scelta mia. Ritardi, litigate, in un caso una rissa con un cliente. Di solito, quasi sempre finiva che da un giorno all’altro non mi presentavo più e tanti saluti. Ok, la colpa era mia, lo ammetto, ma va detto che sinceramente non me n’è mai importato un bel nulla. Il lavoro per me era solo un passatempo tra un’uscita serale e l’altra. Che poi “uscita” è un parolone, perché a dire il vero quello che facevamo noi, ragazzi dei quartieri popolari milanesi, era ritrovarsi in piazzette anonime e spoglie, e passare il tempo seduti sugli schienali delle panchine, a fumarci canne e a parlare di quello che avremmo fatto se avessimo avuto qualche soldo in più, se avessimo svoltato un po’ la nostra vita, se fossimo nati da qualche altra parte, per esempio in America dei film, oppure se avessimo avuto altri cognomi, altri ideali, altre vite.
Se volete sapere quando una società è malata, guardate i sogni dei suoi giovani.
C’è chi sogna di essere, e c’è chi sogna di diventare. Provo a spiegarmi meglio, se ci riesco. Cosa sognavamo noi? Sognavamo di essere ricchi, sì, essere, non di diventarlo. Essere. Nemmeno ci azzardavamo ad immaginare un futuro migliore. La “svolta”, come la chiamavano noi, era pura utopia, era roba da universi paralleli.
Uso una metafora pokeristica, anche questa un po’ abusata. Io e i miei amici sapevamo che le carte che avevamo ricevuto non erano quelle buone, che la mano era già persa in partenza. E se provate a dire che si può sempre bluffare, significa che non sapete nulla di cosa significhi vivere con quello stato d’animo. Non ha senso bluffare se il gioco è truccato.
Io, a differenza degli altri, ho avuto il culo che a un certo punto ho trovato quel lavoro, quello di cui vi ho parlato, perché altrimenti lo so che avrei fatto una fine uguale a quelle di quei miei amici.
Già, perché i più fortunati si sono schiantati in auto, correndo come dei matti nel cuore della notte contro un’altra macchina guidata da qualcuno proprio come loro, entrambi con in corpo tanto di quell’alcol da stordire una balenottera. Gli altri li ha uccisi il mutuo, i finanziamenti a tasso zero, qualcuno la droga, qualcun altro la povertà. I restanti, meschini, li potete trovare ancora lì, su quelle panchine, a farsi divorare dalla noia, dal tempo, dal sogno di una svolta.
Che poi ve la devo dire tutta, anche questa lavoro, all’inizio, non era stato nulla di diverso da tutti gli altri. Ci andavo soltanto perché lo stipendio era decente e non dovevo fare nulla da mattino a sera. Dopo il primo viaggio in Olanda, però, iniziarono i primi cambiamenti.
Sin dai giorni successivi compresi che il capo aveva deciso di puntare su di me, prendendomi sotto la sua ala. Dovunque lui si spostava, io lo seguivo. Divenni la sua ombra. Divenni autista, accompagnatore, in poche settimane iniziò a darmi compiti sempre più importanti, qualche volta persino a chiedere la mia opinione su particolari situazioni di lavoro. Io, che fino a quel momento mi ritenevo un perfetto idiota, iniziai a sentirmi finalmente buono a qualcosa, e cominciai a impegnarmi come non mai. Lavorare stava diventando un piacere.
Ma cosa facevate? vi starete domandando.
Bè, tutto e niente. Intendo che la nostra piccola azienda non aveva un’attività ben definita. Volete sapere di più? Per dirvela in breve potrei usare l’espressione edulcorata “servizi alle imprese”. Detto così sembra un lavoro complicato, nella pratica consiste nel risolvere i problemi della gente. La parola che esprime meglio, secondo me, è “tuttofare.” La tua azienda aveva problemi di derattizzazione? Chiamavi noi. Ti servivano soldi e avevi problemi di accesso al credito? Non dovevi far nient’altro che alzare la cornetta. Problemi coi fornitori? Eccoci qua. Volevi comprare macchinari sottoprezzo? Li volevi pagare il triplo del proprio valore per ingrossare le fatture ed evadere le tasse? Volevi ridiscutere il contratto con i lavoratori in nero? Noi eravamo la soluzione a tutto questo e a molto altro.
Non sto esagerando le cose, funzionava davvero così. Anzi, anche se non sono più nel giro, vi assicuro che funziona così tutt’ora. Di legale, come potrete immaginare, c’era poco o niente, ma il tutto veniva mascherato nel migliore dei modi. Era per questo che eravamo i migliori, era per questo che tutti ci volevano.
Diciamo che le cose giravano in questo modo: quando un’azienda aveva bisogno di risolvere un qualche problema da “zona grigia” in termini di legalità, ecco che allora chiamava noi, e svolgevamo tutto a costo zero. Dopodiché, tra noi e il cliente si instaurava una collaborazione duratura: lui delegava a noi qualsiasi problema, anche il più banale, e per quello pagava profumatamente fatture gonfiate, a volte anche per prestazioni inesistenti.
In media penso che su dieci servizi offerti, otto erano legali, uno al limite, e uno totalmente illegale. Insomma, vi è una sottile linea che divide ciò che si può fare da ciò che non si può, e noi ci danzavamo sopra, spesso oltrepassandola in modo così netto che, vi assicuro, venire beccati e finire in prigione era l’ultimo dei nostri problemi. Quello che voglio dire è che se ti ritrovi a svolgere attività illecite, la tua più grande preoccupazione non è la legge. È la concorrenza.
Se era possibile, trovavamo direttamente noi una soluzione, altrimenti ci rivolgevamo ad altri. Una cosa è certa: i capi dell’azienda, quelli veri intendo, avevano le spalle più che coperte.
Il lavoro d’ufficio era delegato alle attività tranquille, e nemmeno sapevamo di cosa facessero realmente quelli più in alto di noi, Anzi, non saprei dire se il lavoro d’ufficio fosse realmente utile all’impresa, o se fosse semplicemente uno dei modi per dare una parvenza di candore.
Avete capito adesso? Se non ci state ancora capendo molto tranquilli, io stesso ci misi mesi ad orientarmi.
Se penso a quelle prime settimane da “scagnozzo” del capo, ne potrei raccontare così tante che, dato che ho una buona memoria, potrei facilmente rendere la vita difficile a diversi imprenditori.
Qui, racconterò cosa accadde la notte in cui realmente capii cosa facesse la mia azienda. Forse, quella è anche la notte in cui capii per la prima volta chi fossi realmente io.

Questa storia ha per protagonisti Beethoven, uno zombie, una pistola e un pozzo. Se volete sapere chi eravamo noi, credo non vi sia modo migliore per farvelo capire.

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