mercoledì 11 novembre 2015

Capitolo 8

Buio totale.
Accanto al letto, un comodino. Sopra al comodino un foglio. Sul foglio poche parole, scritte a penna, in corsivo.
Tutto comincia nel cuore della notte, con il telefonino che suona Per Elisa di Beethoven. Non chiedetemi perché, ma è stata la mia suoneria da sempre, e lo è tuttora. Una battuta che faccio sempre, quando il telefono inizia a suonarmi in situazioni in cui non dovrebbe, è sdrammatizzare dicendo “Non è per me, è Per Elisa”. Vi assicuro che una risata si strappa sempre.
Suona vecchio mio Beethoven, suona tu che non senti questa dannata sveglia, suona tu che puoi.
Mi sveglio, e accanto a me non c’è nessuno.
Quando decido di alzarmi per andare a rispondere è almeno la terza volta che chiamano, una in fila all’altra.   
I vicini iniziano a urlare qualcosa dalla stanza affianco. I muri di quel condominio sono così sottili che quasi riesci a vederci la televisione attraverso. Per lo stesso motivo, per quelli dei piani sopra la vibrazione del telefono deve sembrare come una specie di Big One californiano.
Lo schermo illumina la stanza a intermittenza, è allora che vedo il foglio sul comodino.
Quello che faccio, a questo punto, è raggiungere il telefono e guardare chi diavolo mi stia chiamando nel bel mezzo della notte.
Il mio capo, e chi se no.
Il vecchio sordo bastardo continua a suonare. Prendo il mano il telefono e cammino fino al comodino. Punto lo schermo direttamente sul foglio e leggo quelle parole, accompagnato dal dal grido del vicino.
Non volevo svegliarti / BUIO / si era fatto tardi / BUIO / grazie per la bella serata.
Buio.
Beethoven smette di suonare per qualche istante, poi ricomincia.
Io guardo ancora il telefono, è ancora il capo.
Vi do un consiglio: se qualcuno vi chiama nel cuore della notte, quando è ovvio che state dormendo, vuol dire che quel qualcuno ha tutta l’intenzione di farvi svegliare, e vi assicuro che non saranno belle notizie. Il mio consiglio, quindi, è di lasciare stare. Fate finta di niente e tornate a dormire.
Click.

«Pronto?».

Capitolo 7

Che non avessi chissà quali spiccate doti o particolari caratteristiche, penso lo abbiate capito: ero e sono un ragazzo normale, uno come tanti, un po’ sbandato forse, ma in fin dei conti abbastanza sveglio. Da ragazzino, a scuola, vivacchiavo con il mio 6 abbondante, senza aver mai avuto bisogno di studiare seriamente. Avevo anche fatto la primina, cioè ero andato alle elementari un anno prima dei miei compagni. L’anno di vantaggio l’ho però perso in seguito, dato che sono stato bocciato in quinta superiore per assenze. È che a 18 anni potevo firmarmi da solo le giustificazioni, e potete immaginare.
Bè, per concludere con un’espressione abusata, diciamo che ero uno di quei ragazzi, uno di quelli che sono come buona parte delle leggi italiane: intelligenti, forse, ma non si applicano.
Vi ho già raccontato dei miei primi due anni a Milano, anni in cui ho cambiato un’infinità di lavori. Ecco, quello che non vi ho detto è che non li cambiavo certo per scelta mia. Ritardi, litigate, in un caso una rissa con un cliente. Di solito, quasi sempre finiva che da un giorno all’altro non mi presentavo più e tanti saluti. Ok, la colpa era mia, lo ammetto, ma va detto che sinceramente non me n’è mai importato un bel nulla. Il lavoro per me era solo un passatempo tra un’uscita serale e l’altra. Che poi “uscita” è un parolone, perché a dire il vero quello che facevamo noi, ragazzi dei quartieri popolari milanesi, era ritrovarsi in piazzette anonime e spoglie, e passare il tempo seduti sugli schienali delle panchine, a fumarci canne e a parlare di quello che avremmo fatto se avessimo avuto qualche soldo in più, se avessimo svoltato un po’ la nostra vita, se fossimo nati da qualche altra parte, per esempio in America dei film, oppure se avessimo avuto altri cognomi, altri ideali, altre vite.
Se volete sapere quando una società è malata, guardate i sogni dei suoi giovani.
C’è chi sogna di essere, e c’è chi sogna di diventare. Provo a spiegarmi meglio, se ci riesco. Cosa sognavamo noi? Sognavamo di essere ricchi, sì, essere, non di diventarlo. Essere. Nemmeno ci azzardavamo ad immaginare un futuro migliore. La “svolta”, come la chiamavano noi, era pura utopia, era roba da universi paralleli.
Uso una metafora pokeristica, anche questa un po’ abusata. Io e i miei amici sapevamo che le carte che avevamo ricevuto non erano quelle buone, che la mano era già persa in partenza. E se provate a dire che si può sempre bluffare, significa che non sapete nulla di cosa significhi vivere con quello stato d’animo. Non ha senso bluffare se il gioco è truccato.
Io, a differenza degli altri, ho avuto il culo che a un certo punto ho trovato quel lavoro, quello di cui vi ho parlato, perché altrimenti lo so che avrei fatto una fine uguale a quelle di quei miei amici.
Già, perché i più fortunati si sono schiantati in auto, correndo come dei matti nel cuore della notte contro un’altra macchina guidata da qualcuno proprio come loro, entrambi con in corpo tanto di quell’alcol da stordire una balenottera. Gli altri li ha uccisi il mutuo, i finanziamenti a tasso zero, qualcuno la droga, qualcun altro la povertà. I restanti, meschini, li potete trovare ancora lì, su quelle panchine, a farsi divorare dalla noia, dal tempo, dal sogno di una svolta.
Che poi ve la devo dire tutta, anche questa lavoro, all’inizio, non era stato nulla di diverso da tutti gli altri. Ci andavo soltanto perché lo stipendio era decente e non dovevo fare nulla da mattino a sera. Dopo il primo viaggio in Olanda, però, iniziarono i primi cambiamenti.
Sin dai giorni successivi compresi che il capo aveva deciso di puntare su di me, prendendomi sotto la sua ala. Dovunque lui si spostava, io lo seguivo. Divenni la sua ombra. Divenni autista, accompagnatore, in poche settimane iniziò a darmi compiti sempre più importanti, qualche volta persino a chiedere la mia opinione su particolari situazioni di lavoro. Io, che fino a quel momento mi ritenevo un perfetto idiota, iniziai a sentirmi finalmente buono a qualcosa, e cominciai a impegnarmi come non mai. Lavorare stava diventando un piacere.
Ma cosa facevate? vi starete domandando.
Bè, tutto e niente. Intendo che la nostra piccola azienda non aveva un’attività ben definita. Volete sapere di più? Per dirvela in breve potrei usare l’espressione edulcorata “servizi alle imprese”. Detto così sembra un lavoro complicato, nella pratica consiste nel risolvere i problemi della gente. La parola che esprime meglio, secondo me, è “tuttofare.” La tua azienda aveva problemi di derattizzazione? Chiamavi noi. Ti servivano soldi e avevi problemi di accesso al credito? Non dovevi far nient’altro che alzare la cornetta. Problemi coi fornitori? Eccoci qua. Volevi comprare macchinari sottoprezzo? Li volevi pagare il triplo del proprio valore per ingrossare le fatture ed evadere le tasse? Volevi ridiscutere il contratto con i lavoratori in nero? Noi eravamo la soluzione a tutto questo e a molto altro.
Non sto esagerando le cose, funzionava davvero così. Anzi, anche se non sono più nel giro, vi assicuro che funziona così tutt’ora. Di legale, come potrete immaginare, c’era poco o niente, ma il tutto veniva mascherato nel migliore dei modi. Era per questo che eravamo i migliori, era per questo che tutti ci volevano.
Diciamo che le cose giravano in questo modo: quando un’azienda aveva bisogno di risolvere un qualche problema da “zona grigia” in termini di legalità, ecco che allora chiamava noi, e svolgevamo tutto a costo zero. Dopodiché, tra noi e il cliente si instaurava una collaborazione duratura: lui delegava a noi qualsiasi problema, anche il più banale, e per quello pagava profumatamente fatture gonfiate, a volte anche per prestazioni inesistenti.
In media penso che su dieci servizi offerti, otto erano legali, uno al limite, e uno totalmente illegale. Insomma, vi è una sottile linea che divide ciò che si può fare da ciò che non si può, e noi ci danzavamo sopra, spesso oltrepassandola in modo così netto che, vi assicuro, venire beccati e finire in prigione era l’ultimo dei nostri problemi. Quello che voglio dire è che se ti ritrovi a svolgere attività illecite, la tua più grande preoccupazione non è la legge. È la concorrenza.
Se era possibile, trovavamo direttamente noi una soluzione, altrimenti ci rivolgevamo ad altri. Una cosa è certa: i capi dell’azienda, quelli veri intendo, avevano le spalle più che coperte.
Il lavoro d’ufficio era delegato alle attività tranquille, e nemmeno sapevamo di cosa facessero realmente quelli più in alto di noi, Anzi, non saprei dire se il lavoro d’ufficio fosse realmente utile all’impresa, o se fosse semplicemente uno dei modi per dare una parvenza di candore.
Avete capito adesso? Se non ci state ancora capendo molto tranquilli, io stesso ci misi mesi ad orientarmi.
Se penso a quelle prime settimane da “scagnozzo” del capo, ne potrei raccontare così tante che, dato che ho una buona memoria, potrei facilmente rendere la vita difficile a diversi imprenditori.
Qui, racconterò cosa accadde la notte in cui realmente capii cosa facesse la mia azienda. Forse, quella è anche la notte in cui capii per la prima volta chi fossi realmente io.

Questa storia ha per protagonisti Beethoven, uno zombie, una pistola e un pozzo. Se volete sapere chi eravamo noi, credo non vi sia modo migliore per farvelo capire.

Capitolo 6

Di solito, arrivati a questo punto della mia storia, la gente inizia a credere che forse, dopotutto, sia quasi tutto vero.
Ecco, d’ora in avanti si traccia una linea di demarcazione. Adesso arriva la parte a cui non crederete, quella che deve essere per forza falsa, per forza palesemente romanzata.
Io, che non è così, ve lo posso anche dire, ma tanto so già che tutti, chi prima e chi poi, inizierete a non credere.
Non è colpa mia, lo so, e non è nemmeno colpa vostra, è la nostra natura di esseri umani. Siamo fatti così. Siamo portati a credere solamente a due tipologie di fatti: i primi sono quelli plausibili di per sé, quelli che sono veri in quanto tali; i secondi invece, sono quelli così assurdi da dover per forza esser veri. Per queste due categorie saremmo disposti a darci addirittura la vita, e c’è chi lo fa. Ecco, poi invece ci sono tutte le altre sfumature che ci stanno in mezzo: per noi quelle per noi sono tutte false, o almeno potenzialmente tali.
La mia storia, purtroppo o per fortuna, appartiene a questa terza categoria. Non è una vicenda banale e dunque vera a prescindere, ma non è nemmeno così assurda da essere vera per forza. E poi c’è anche il fatto che chi racconta ha il pallino di romanzare tutto, e allora sì che non si distingue più cosa è vero da cosa non lo è.
La verità? Zssk…potrei giurarvela su qualunque testa, non ci credereste lo stesso.
Bè, io ci provo, io ve lo dico che il protagonista sono sempre io, che la percentuale di fatti veri è sempre la stessa, e che su molte di queste cose potreste tranquillamente scommetterci la testa di vostra madre, ma tanto so già che a breve, vedrete, inizierete a dubitare di ogni singola parola.
Vi avviso già io dunque, e lo faccio solo perché almeno non verrete a dirmelo voi. Da narratore sincero e affidabile diverrò in poco tempo un cantastorie perditempo, uno che le cose le dice bene, Dio se le dice bene, ma in fondo si sa che sono soltanto bugie travestite da finta realtà.

Detto questo, direi che la storia può riprendere, più o meno, da dove l’abbiamo lasciata.

martedì 10 novembre 2015

INFO: 3 capitoli, poi una piccola pausa

A mezzanotte saranno pubblicati i capitoli 6,7 e 8. Dopodichè, il blog prenderà una piccola pausa.
La programmazione riprenderà il giorno 2 Dicembre.
Colgo l'occasione di questo post "tecnico" per ringraziarvi: le visualizzazioni stanno crescendo di settimana in settimana, e mi fa piacere vedere che una parte di esse è dovuta a connazionali che ora si trovano all'estero e che seguono da là questa mia avventura. A loro mando un saluto particolare.
Dato che, numeri alla mano, siete in molti a leggere, chiedo a voi lettori due cose:
-essere un po' più attivi nella sezione dei commenti;
-diffondere attraverso il passaparola i link di questo blog.

Più gente raggiungiamo, più ci divertiamo :-)

Un saluto a tutti!
Al 2 dicembre

mercoledì 4 novembre 2015

Capitolo 5


Il giorno stesso del mio ritorno in Italia vengo raggiunto da una brutta notizia, quella della morte di mio nonno, l’unico dei miei nonni ancora in vita. Bè, in vita fino a quel punto, intendo.
Non so voi, ma a me fa un effetto strano quella parola. Mi fa strano dirla, sentirla, leggerla e persino scriverla. Morte.
Non che fossi particolarmente legato a mio nonno. È brutto dirlo, ma credo di non aver nemmeno provato tristezza per la scomparsa, semplicemente è una cosa che metti in conto nella vita: una dopo l’altro, prima o poi le persone con cui ti relazioni se ne vanno, chi all’improvviso, chi meno. Mio nonno era uno di questi ultimi, uno di quelli che a crepare ci mettono novant’anni, ma che in fondo lo avevano già fatto molto prima, poco alla volta.
Io, nel mio piccolo, spero di appartenere alla prima categoria, a quelli che… puff, prima erano lì, e adesso sono spariti. Chiudere col botto, se capite che intendo. 
Di circostanze per parlare di questa strana e impronunciabile parola ce ne saranno altre, quindi per ora mi limito a queste cupe, e forse banali, constatazioni. 
Due giorni dopo, dunque, mi ritrovo a ripartire verso la mia terra natale per partecipare al funerale. È circa un anno che non vedo quei luoghi, ed è giunto il momento di ritornare.
Ritornare a casa dopo tanto tempo. Gli antichi greci ci hanno costruito un genere letterario solo su questa cosa. È il “nostos”, il canto del ritorno. Tanto per farvi un esempio celebre, il più famoso di quelli che si sono salvati fino ai giorni nostri è l’Odissea, e poi non dite che a leggere questo idiota che racconta la sua vita non si impara qualcosa di utile, ogni tanto. 
Bè, caro Omero, non è poi difficile raccontare un ritorno a casa, guarda qua:
scendi dalle scale e prendi il taxi sotto casa, scendi dal taxi in stazione e prendi un treno, scendi dal treno e prendi un altro treno mentre si stanno chiudendo le porte (anche se in teoria c’era un’ora di coincidenza tra l’uno e l’altro), poi scendi da quest’ultimo treno e aspetti il pullman, ci sali, guardi da passeggero le strade dove da piccolo sfrecciavi, si fa per dire, col tuo Ciao, scendi dal pullman e sali sulla Panda di un vecchio amico, che ti riporta fra le chiacchiere fino al tuo paese natale, dritto fino a casa. 
Sostituite il sottoscritto con Ulisse, sostituite i mezzi di oggi con navi e animali e avete la vostra bella Odissea.
È davvero tutto qui. Tornare, in fin dei conti, è un’azione banale. Come banali sono i ricordi, che sono la sola cosa che si pensa mentre si fa ritorno, un riaffiorare di passato, di ipotesi su cosa possa essere cambiato. È tutto qui il nostos, una noia mortale.
Per quanto mi riguarda non è nulla a che vedere con le partenze, intrise di profumo di futuro, piene di paure, di sogni e aspettative. Quelle sì che vale la pena raccontarle.
Va bè, si fotta Omero, torniamo a noi e al nostro paese di 158 anime.
Avevo detto che non si può neanche morire in un paese così, mi sbagliavo. Nonno ci è riuscito. E io sono davanti alla porta di casa per rincontrare il mio passato.
Anzi no, faccio marcia indietro, perdonatemi. Lo so che a volte leggermi è come andare sulle montagne russe, vi capisco, ma questo è un errore che va corretto.
Se ritorno indietro è solo per precisare meglio le cose: il mio non era un nostos, perché quella non era la mia casa, non lo era mai stata.
Già, perché io credo che la casa sia quel posto verso cui la nostra mente e il nostro corpo vogliono costantemente fare ritorno. Anche in questo caso non so se ‘sta cosa non l’abbia già detta qualcun altro. Mi è nata così, quindi se vi piace sapete a chi dare il merito, per quello che vale.
Non so se la mia casa era Milano, per quanto mi riguarda a me andava bene qualsiasi altro posto. Tutto tranne che quel paese senza possibilità da cui avevo sempre voluto fuggire. 
Quindi, ricapitolando, fatemi correggere la frase di prima: 
Avevo detto che non si può neanche morire in un paese così, mi sbagliavo. Nonno ci è riuscito. E io sono davanti alla porta di un’abitazione in cui ho vissuto, per rincontrare il mio passato.
Suono il campanello, ma nessuno mi risponde, devono già essere tutti in chiesa. 
Eh sì, scommetto che nessuno si stupisce se vi dico che persino quel misero paesino ha la sua chiesetta. Siamo in Italia dopotutto, qui ci sono più chiese che scuole, e non sto dicendo tanto per dire, è così davvero, dati alla mano.
Uno psicologo mi direbbe che sono arrivato appena in tempo per il funerale perchè inconsciamente volevo stare meno tempo possibile con i miei parenti e con tutte quelle persone che conoscono ciò che ero. Bè, devo ammettere che questa volta la psicologia ci prenderebbe, però mi piace dare un po’ di colpa anche ai ritardi dei mezzi pubblici e ai loro orari. Quindi che si fotta pure lo psicologo.
È un giorno nuvoloso, ma fa davvero caldo. Percorro quei cento metri che mi separano dalla chiesa e, guardando quelle vie, sento dentro di me tutto il contrasto tra quel piccolo paesino di ombre stanche e Amsterdam, che ho ancora viva negli occhi. È un po’ come passare dal Maracanà al campetto dell’oratorio. O se volete, per restare in tema, è un po’ come passare dalla guerra di T.roia, a dover indossare il maglioncino grigio che vi ha cucito la vostra mogliettina Penelope. 
Omero, a volte ritornano.
Arrivo alla chiesetta, il portone è spalancato. Ad accogliermi, un forte odore di incenso. Dentro c’è quasi tutto il paese, quindi le panche sono semivuote.
Mi avvicino alle prime file, vedo i miei genitori e mi siedo dietro di loro, vicino a qualche cugino di non so che grado. Mio padre mi guarda con gli occhi del “dove ***** sei stato?”, mia mamma è accanto a lui con le lacrime che le scendono sotto gli occhiali scuri. Sì, occhiali da sole in chiesa, che pessimo gusto.
Il prete è lo stesso di sempre, uno di quegli uomini immortali, uno di quelli che crede ciecamente alla storiella di Adamo ed Eva, e il motivo è che è così vecchio che era anche lui lì con loro. Gli reggeva il moccolo.
La funzione va avanti per un’oretta abbondante. Nei paesi si usa così, tanto non c’è nient’altro da fare.
Quando finisce, è tutto un susseguirsi di baci e condoglianze, di che-fine-hai-fatto e di era-un-brav’-uomo. Poi saliamo in macchina e percorriamo dietro al carro funebre i 18 chilometri che ci separano dal cimitero. Quando interrano la bara inizia persino a piovere, roba da film di basso livello.
«Se n’è andato nel sonno» singhiozza mia mamma. Per quanto mi riguarda erano vent’anni che dormiva. Anzi, per quanto mi riguarda se ne vanno quasi tutti nel sonno, siamo pochi ad essere svegli per davvero. Vorrei risponderle così, ma mi trattengo per rispetto verso il suo dolore.
Il corpo di mio nonno è seppellito ancora lì, in quel cimitero. Ci sono tornato una sola volta dopo quel giorno. Ve ne parlerò.
Finito lo spettacolo della bara volante, ce ne torniamo a casa, e ci mettiamo tutti in cortile, sotto ad una grossa veranda, a parlare. Finalmente, a poco a poco, in qualche interminabile ora, se ne vanno anche i parenti e rimaniamo soltanto io ed i miei genitori, che iniziano a farmi le stesse domande che mi hanno fatto tutti gli altri fino a questo punto.
«Quand’è che riparti?»
«Stasera. Tra un paio d’ore passano a prendermi. Domani devo lavorare». Non è vero, ma è meglio così.
«Ah… peccato» non l’hanno bevuta, ma non dicono nulla, «Allora, com’è Amsterdam?»
«E’ vera. Mi piace per questo» rispondo.
«Ti trovi bene con il lavoro allora»
«Abbastanza, la paga è buona»
«E la vita a Milano come ti va?» insistono.
Io li guardo entrambi prima di rispondere, poi guardo la pioggia che cade davanti a noi nella stradina deserta, e guardo di nuovo loro.
«Uno schifo» gli dico, «ma almeno è vita».
Mio papà, immagino stizzito dalle mie risposte, se ne rientra in casa, io rimango solo con mamma.
«Gli occhiali», le dico, «perché non te li togli?».
«Va tutto bene» mi fa lei, «non ti preoccupare» e prende e se ne va a preparare la cena, mentre io rimango là fuori a fumare. E pensare.
Ceniamo poco dopo, sempre lì in cortile, sempre sotto la veranda. Praticamente nessuno dice una parola. 
Dopo cena, il mio amico mi chiama: sta per arrivare sotto casa.
Io vado in cucina da mia madre per salutarla, lei ha ancora addosso quei fottuti occhiali neri.
«Io vado» le dico. 
Mi abbraccia forte, e mentre lo fa le alzo gli occhiali e le scopro il viso.
Dejavù.
«Davvero, va tutto bene, non ti preoccupare» mi dice di nuovo lei.
Io guardo l’ematoma attorno all’occhio, riabbasso gli occhiali e me ne esco di casa. Mio padre non lo saluto nemmeno. 
Una volta che sono fuori, passo accanto alla sua vecchia macchina, che è parcheggiata lì davanti. Prendo un sasso e gli rigo il cofano, ma dato che è bianco non sono nemmeno contento del danno fatto.
Il mio amico arriva proprio in quel momento, proprio mentre penso se spaccare o meno il finestrino. Quando salgo sulla sua macchina ho ancora il sasso in mano, pronto a rifare tutto il viaggio con me, come un fedele compagno. 
Sono contento di andarmene da qui, voglio tornare a Milano. Voglio tornare a casa.
E' sera ormai, ed è nelle luci della sera che io ricomincio la mia fuga, il mio viaggio di ritorno, il mio nostos. 
Come ho già detto, su quello, non ci vedo proprio nulla da raccontare.