mercoledì 11 novembre 2015

Capitolo 8

Buio totale.
Accanto al letto, un comodino. Sopra al comodino un foglio. Sul foglio poche parole, scritte a penna, in corsivo.
Tutto comincia nel cuore della notte, con il telefonino che suona Per Elisa di Beethoven. Non chiedetemi perché, ma è stata la mia suoneria da sempre, e lo è tuttora. Una battuta che faccio sempre, quando il telefono inizia a suonarmi in situazioni in cui non dovrebbe, è sdrammatizzare dicendo “Non è per me, è Per Elisa”. Vi assicuro che una risata si strappa sempre.
Suona vecchio mio Beethoven, suona tu che non senti questa dannata sveglia, suona tu che puoi.
Mi sveglio, e accanto a me non c’è nessuno.
Quando decido di alzarmi per andare a rispondere è almeno la terza volta che chiamano, una in fila all’altra.   
I vicini iniziano a urlare qualcosa dalla stanza affianco. I muri di quel condominio sono così sottili che quasi riesci a vederci la televisione attraverso. Per lo stesso motivo, per quelli dei piani sopra la vibrazione del telefono deve sembrare come una specie di Big One californiano.
Lo schermo illumina la stanza a intermittenza, è allora che vedo il foglio sul comodino.
Quello che faccio, a questo punto, è raggiungere il telefono e guardare chi diavolo mi stia chiamando nel bel mezzo della notte.
Il mio capo, e chi se no.
Il vecchio sordo bastardo continua a suonare. Prendo il mano il telefono e cammino fino al comodino. Punto lo schermo direttamente sul foglio e leggo quelle parole, accompagnato dal dal grido del vicino.
Non volevo svegliarti / BUIO / si era fatto tardi / BUIO / grazie per la bella serata.
Buio.
Beethoven smette di suonare per qualche istante, poi ricomincia.
Io guardo ancora il telefono, è ancora il capo.
Vi do un consiglio: se qualcuno vi chiama nel cuore della notte, quando è ovvio che state dormendo, vuol dire che quel qualcuno ha tutta l’intenzione di farvi svegliare, e vi assicuro che non saranno belle notizie. Il mio consiglio, quindi, è di lasciare stare. Fate finta di niente e tornate a dormire.
Click.

«Pronto?».

Capitolo 7

Che non avessi chissà quali spiccate doti o particolari caratteristiche, penso lo abbiate capito: ero e sono un ragazzo normale, uno come tanti, un po’ sbandato forse, ma in fin dei conti abbastanza sveglio. Da ragazzino, a scuola, vivacchiavo con il mio 6 abbondante, senza aver mai avuto bisogno di studiare seriamente. Avevo anche fatto la primina, cioè ero andato alle elementari un anno prima dei miei compagni. L’anno di vantaggio l’ho però perso in seguito, dato che sono stato bocciato in quinta superiore per assenze. È che a 18 anni potevo firmarmi da solo le giustificazioni, e potete immaginare.
Bè, per concludere con un’espressione abusata, diciamo che ero uno di quei ragazzi, uno di quelli che sono come buona parte delle leggi italiane: intelligenti, forse, ma non si applicano.
Vi ho già raccontato dei miei primi due anni a Milano, anni in cui ho cambiato un’infinità di lavori. Ecco, quello che non vi ho detto è che non li cambiavo certo per scelta mia. Ritardi, litigate, in un caso una rissa con un cliente. Di solito, quasi sempre finiva che da un giorno all’altro non mi presentavo più e tanti saluti. Ok, la colpa era mia, lo ammetto, ma va detto che sinceramente non me n’è mai importato un bel nulla. Il lavoro per me era solo un passatempo tra un’uscita serale e l’altra. Che poi “uscita” è un parolone, perché a dire il vero quello che facevamo noi, ragazzi dei quartieri popolari milanesi, era ritrovarsi in piazzette anonime e spoglie, e passare il tempo seduti sugli schienali delle panchine, a fumarci canne e a parlare di quello che avremmo fatto se avessimo avuto qualche soldo in più, se avessimo svoltato un po’ la nostra vita, se fossimo nati da qualche altra parte, per esempio in America dei film, oppure se avessimo avuto altri cognomi, altri ideali, altre vite.
Se volete sapere quando una società è malata, guardate i sogni dei suoi giovani.
C’è chi sogna di essere, e c’è chi sogna di diventare. Provo a spiegarmi meglio, se ci riesco. Cosa sognavamo noi? Sognavamo di essere ricchi, sì, essere, non di diventarlo. Essere. Nemmeno ci azzardavamo ad immaginare un futuro migliore. La “svolta”, come la chiamavano noi, era pura utopia, era roba da universi paralleli.
Uso una metafora pokeristica, anche questa un po’ abusata. Io e i miei amici sapevamo che le carte che avevamo ricevuto non erano quelle buone, che la mano era già persa in partenza. E se provate a dire che si può sempre bluffare, significa che non sapete nulla di cosa significhi vivere con quello stato d’animo. Non ha senso bluffare se il gioco è truccato.
Io, a differenza degli altri, ho avuto il culo che a un certo punto ho trovato quel lavoro, quello di cui vi ho parlato, perché altrimenti lo so che avrei fatto una fine uguale a quelle di quei miei amici.
Già, perché i più fortunati si sono schiantati in auto, correndo come dei matti nel cuore della notte contro un’altra macchina guidata da qualcuno proprio come loro, entrambi con in corpo tanto di quell’alcol da stordire una balenottera. Gli altri li ha uccisi il mutuo, i finanziamenti a tasso zero, qualcuno la droga, qualcun altro la povertà. I restanti, meschini, li potete trovare ancora lì, su quelle panchine, a farsi divorare dalla noia, dal tempo, dal sogno di una svolta.
Che poi ve la devo dire tutta, anche questa lavoro, all’inizio, non era stato nulla di diverso da tutti gli altri. Ci andavo soltanto perché lo stipendio era decente e non dovevo fare nulla da mattino a sera. Dopo il primo viaggio in Olanda, però, iniziarono i primi cambiamenti.
Sin dai giorni successivi compresi che il capo aveva deciso di puntare su di me, prendendomi sotto la sua ala. Dovunque lui si spostava, io lo seguivo. Divenni la sua ombra. Divenni autista, accompagnatore, in poche settimane iniziò a darmi compiti sempre più importanti, qualche volta persino a chiedere la mia opinione su particolari situazioni di lavoro. Io, che fino a quel momento mi ritenevo un perfetto idiota, iniziai a sentirmi finalmente buono a qualcosa, e cominciai a impegnarmi come non mai. Lavorare stava diventando un piacere.
Ma cosa facevate? vi starete domandando.
Bè, tutto e niente. Intendo che la nostra piccola azienda non aveva un’attività ben definita. Volete sapere di più? Per dirvela in breve potrei usare l’espressione edulcorata “servizi alle imprese”. Detto così sembra un lavoro complicato, nella pratica consiste nel risolvere i problemi della gente. La parola che esprime meglio, secondo me, è “tuttofare.” La tua azienda aveva problemi di derattizzazione? Chiamavi noi. Ti servivano soldi e avevi problemi di accesso al credito? Non dovevi far nient’altro che alzare la cornetta. Problemi coi fornitori? Eccoci qua. Volevi comprare macchinari sottoprezzo? Li volevi pagare il triplo del proprio valore per ingrossare le fatture ed evadere le tasse? Volevi ridiscutere il contratto con i lavoratori in nero? Noi eravamo la soluzione a tutto questo e a molto altro.
Non sto esagerando le cose, funzionava davvero così. Anzi, anche se non sono più nel giro, vi assicuro che funziona così tutt’ora. Di legale, come potrete immaginare, c’era poco o niente, ma il tutto veniva mascherato nel migliore dei modi. Era per questo che eravamo i migliori, era per questo che tutti ci volevano.
Diciamo che le cose giravano in questo modo: quando un’azienda aveva bisogno di risolvere un qualche problema da “zona grigia” in termini di legalità, ecco che allora chiamava noi, e svolgevamo tutto a costo zero. Dopodiché, tra noi e il cliente si instaurava una collaborazione duratura: lui delegava a noi qualsiasi problema, anche il più banale, e per quello pagava profumatamente fatture gonfiate, a volte anche per prestazioni inesistenti.
In media penso che su dieci servizi offerti, otto erano legali, uno al limite, e uno totalmente illegale. Insomma, vi è una sottile linea che divide ciò che si può fare da ciò che non si può, e noi ci danzavamo sopra, spesso oltrepassandola in modo così netto che, vi assicuro, venire beccati e finire in prigione era l’ultimo dei nostri problemi. Quello che voglio dire è che se ti ritrovi a svolgere attività illecite, la tua più grande preoccupazione non è la legge. È la concorrenza.
Se era possibile, trovavamo direttamente noi una soluzione, altrimenti ci rivolgevamo ad altri. Una cosa è certa: i capi dell’azienda, quelli veri intendo, avevano le spalle più che coperte.
Il lavoro d’ufficio era delegato alle attività tranquille, e nemmeno sapevamo di cosa facessero realmente quelli più in alto di noi, Anzi, non saprei dire se il lavoro d’ufficio fosse realmente utile all’impresa, o se fosse semplicemente uno dei modi per dare una parvenza di candore.
Avete capito adesso? Se non ci state ancora capendo molto tranquilli, io stesso ci misi mesi ad orientarmi.
Se penso a quelle prime settimane da “scagnozzo” del capo, ne potrei raccontare così tante che, dato che ho una buona memoria, potrei facilmente rendere la vita difficile a diversi imprenditori.
Qui, racconterò cosa accadde la notte in cui realmente capii cosa facesse la mia azienda. Forse, quella è anche la notte in cui capii per la prima volta chi fossi realmente io.

Questa storia ha per protagonisti Beethoven, uno zombie, una pistola e un pozzo. Se volete sapere chi eravamo noi, credo non vi sia modo migliore per farvelo capire.

Capitolo 6

Di solito, arrivati a questo punto della mia storia, la gente inizia a credere che forse, dopotutto, sia quasi tutto vero.
Ecco, d’ora in avanti si traccia una linea di demarcazione. Adesso arriva la parte a cui non crederete, quella che deve essere per forza falsa, per forza palesemente romanzata.
Io, che non è così, ve lo posso anche dire, ma tanto so già che tutti, chi prima e chi poi, inizierete a non credere.
Non è colpa mia, lo so, e non è nemmeno colpa vostra, è la nostra natura di esseri umani. Siamo fatti così. Siamo portati a credere solamente a due tipologie di fatti: i primi sono quelli plausibili di per sé, quelli che sono veri in quanto tali; i secondi invece, sono quelli così assurdi da dover per forza esser veri. Per queste due categorie saremmo disposti a darci addirittura la vita, e c’è chi lo fa. Ecco, poi invece ci sono tutte le altre sfumature che ci stanno in mezzo: per noi quelle per noi sono tutte false, o almeno potenzialmente tali.
La mia storia, purtroppo o per fortuna, appartiene a questa terza categoria. Non è una vicenda banale e dunque vera a prescindere, ma non è nemmeno così assurda da essere vera per forza. E poi c’è anche il fatto che chi racconta ha il pallino di romanzare tutto, e allora sì che non si distingue più cosa è vero da cosa non lo è.
La verità? Zssk…potrei giurarvela su qualunque testa, non ci credereste lo stesso.
Bè, io ci provo, io ve lo dico che il protagonista sono sempre io, che la percentuale di fatti veri è sempre la stessa, e che su molte di queste cose potreste tranquillamente scommetterci la testa di vostra madre, ma tanto so già che a breve, vedrete, inizierete a dubitare di ogni singola parola.
Vi avviso già io dunque, e lo faccio solo perché almeno non verrete a dirmelo voi. Da narratore sincero e affidabile diverrò in poco tempo un cantastorie perditempo, uno che le cose le dice bene, Dio se le dice bene, ma in fondo si sa che sono soltanto bugie travestite da finta realtà.

Detto questo, direi che la storia può riprendere, più o meno, da dove l’abbiamo lasciata.

martedì 10 novembre 2015

INFO: 3 capitoli, poi una piccola pausa

A mezzanotte saranno pubblicati i capitoli 6,7 e 8. Dopodichè, il blog prenderà una piccola pausa.
La programmazione riprenderà il giorno 2 Dicembre.
Colgo l'occasione di questo post "tecnico" per ringraziarvi: le visualizzazioni stanno crescendo di settimana in settimana, e mi fa piacere vedere che una parte di esse è dovuta a connazionali che ora si trovano all'estero e che seguono da là questa mia avventura. A loro mando un saluto particolare.
Dato che, numeri alla mano, siete in molti a leggere, chiedo a voi lettori due cose:
-essere un po' più attivi nella sezione dei commenti;
-diffondere attraverso il passaparola i link di questo blog.

Più gente raggiungiamo, più ci divertiamo :-)

Un saluto a tutti!
Al 2 dicembre

mercoledì 4 novembre 2015

Capitolo 5


Il giorno stesso del mio ritorno in Italia vengo raggiunto da una brutta notizia, quella della morte di mio nonno, l’unico dei miei nonni ancora in vita. Bè, in vita fino a quel punto, intendo.
Non so voi, ma a me fa un effetto strano quella parola. Mi fa strano dirla, sentirla, leggerla e persino scriverla. Morte.
Non che fossi particolarmente legato a mio nonno. È brutto dirlo, ma credo di non aver nemmeno provato tristezza per la scomparsa, semplicemente è una cosa che metti in conto nella vita: una dopo l’altro, prima o poi le persone con cui ti relazioni se ne vanno, chi all’improvviso, chi meno. Mio nonno era uno di questi ultimi, uno di quelli che a crepare ci mettono novant’anni, ma che in fondo lo avevano già fatto molto prima, poco alla volta.
Io, nel mio piccolo, spero di appartenere alla prima categoria, a quelli che… puff, prima erano lì, e adesso sono spariti. Chiudere col botto, se capite che intendo. 
Di circostanze per parlare di questa strana e impronunciabile parola ce ne saranno altre, quindi per ora mi limito a queste cupe, e forse banali, constatazioni. 
Due giorni dopo, dunque, mi ritrovo a ripartire verso la mia terra natale per partecipare al funerale. È circa un anno che non vedo quei luoghi, ed è giunto il momento di ritornare.
Ritornare a casa dopo tanto tempo. Gli antichi greci ci hanno costruito un genere letterario solo su questa cosa. È il “nostos”, il canto del ritorno. Tanto per farvi un esempio celebre, il più famoso di quelli che si sono salvati fino ai giorni nostri è l’Odissea, e poi non dite che a leggere questo idiota che racconta la sua vita non si impara qualcosa di utile, ogni tanto. 
Bè, caro Omero, non è poi difficile raccontare un ritorno a casa, guarda qua:
scendi dalle scale e prendi il taxi sotto casa, scendi dal taxi in stazione e prendi un treno, scendi dal treno e prendi un altro treno mentre si stanno chiudendo le porte (anche se in teoria c’era un’ora di coincidenza tra l’uno e l’altro), poi scendi da quest’ultimo treno e aspetti il pullman, ci sali, guardi da passeggero le strade dove da piccolo sfrecciavi, si fa per dire, col tuo Ciao, scendi dal pullman e sali sulla Panda di un vecchio amico, che ti riporta fra le chiacchiere fino al tuo paese natale, dritto fino a casa. 
Sostituite il sottoscritto con Ulisse, sostituite i mezzi di oggi con navi e animali e avete la vostra bella Odissea.
È davvero tutto qui. Tornare, in fin dei conti, è un’azione banale. Come banali sono i ricordi, che sono la sola cosa che si pensa mentre si fa ritorno, un riaffiorare di passato, di ipotesi su cosa possa essere cambiato. È tutto qui il nostos, una noia mortale.
Per quanto mi riguarda non è nulla a che vedere con le partenze, intrise di profumo di futuro, piene di paure, di sogni e aspettative. Quelle sì che vale la pena raccontarle.
Va bè, si fotta Omero, torniamo a noi e al nostro paese di 158 anime.
Avevo detto che non si può neanche morire in un paese così, mi sbagliavo. Nonno ci è riuscito. E io sono davanti alla porta di casa per rincontrare il mio passato.
Anzi no, faccio marcia indietro, perdonatemi. Lo so che a volte leggermi è come andare sulle montagne russe, vi capisco, ma questo è un errore che va corretto.
Se ritorno indietro è solo per precisare meglio le cose: il mio non era un nostos, perché quella non era la mia casa, non lo era mai stata.
Già, perché io credo che la casa sia quel posto verso cui la nostra mente e il nostro corpo vogliono costantemente fare ritorno. Anche in questo caso non so se ‘sta cosa non l’abbia già detta qualcun altro. Mi è nata così, quindi se vi piace sapete a chi dare il merito, per quello che vale.
Non so se la mia casa era Milano, per quanto mi riguarda a me andava bene qualsiasi altro posto. Tutto tranne che quel paese senza possibilità da cui avevo sempre voluto fuggire. 
Quindi, ricapitolando, fatemi correggere la frase di prima: 
Avevo detto che non si può neanche morire in un paese così, mi sbagliavo. Nonno ci è riuscito. E io sono davanti alla porta di un’abitazione in cui ho vissuto, per rincontrare il mio passato.
Suono il campanello, ma nessuno mi risponde, devono già essere tutti in chiesa. 
Eh sì, scommetto che nessuno si stupisce se vi dico che persino quel misero paesino ha la sua chiesetta. Siamo in Italia dopotutto, qui ci sono più chiese che scuole, e non sto dicendo tanto per dire, è così davvero, dati alla mano.
Uno psicologo mi direbbe che sono arrivato appena in tempo per il funerale perchè inconsciamente volevo stare meno tempo possibile con i miei parenti e con tutte quelle persone che conoscono ciò che ero. Bè, devo ammettere che questa volta la psicologia ci prenderebbe, però mi piace dare un po’ di colpa anche ai ritardi dei mezzi pubblici e ai loro orari. Quindi che si fotta pure lo psicologo.
È un giorno nuvoloso, ma fa davvero caldo. Percorro quei cento metri che mi separano dalla chiesa e, guardando quelle vie, sento dentro di me tutto il contrasto tra quel piccolo paesino di ombre stanche e Amsterdam, che ho ancora viva negli occhi. È un po’ come passare dal Maracanà al campetto dell’oratorio. O se volete, per restare in tema, è un po’ come passare dalla guerra di T.roia, a dover indossare il maglioncino grigio che vi ha cucito la vostra mogliettina Penelope. 
Omero, a volte ritornano.
Arrivo alla chiesetta, il portone è spalancato. Ad accogliermi, un forte odore di incenso. Dentro c’è quasi tutto il paese, quindi le panche sono semivuote.
Mi avvicino alle prime file, vedo i miei genitori e mi siedo dietro di loro, vicino a qualche cugino di non so che grado. Mio padre mi guarda con gli occhi del “dove ***** sei stato?”, mia mamma è accanto a lui con le lacrime che le scendono sotto gli occhiali scuri. Sì, occhiali da sole in chiesa, che pessimo gusto.
Il prete è lo stesso di sempre, uno di quegli uomini immortali, uno di quelli che crede ciecamente alla storiella di Adamo ed Eva, e il motivo è che è così vecchio che era anche lui lì con loro. Gli reggeva il moccolo.
La funzione va avanti per un’oretta abbondante. Nei paesi si usa così, tanto non c’è nient’altro da fare.
Quando finisce, è tutto un susseguirsi di baci e condoglianze, di che-fine-hai-fatto e di era-un-brav’-uomo. Poi saliamo in macchina e percorriamo dietro al carro funebre i 18 chilometri che ci separano dal cimitero. Quando interrano la bara inizia persino a piovere, roba da film di basso livello.
«Se n’è andato nel sonno» singhiozza mia mamma. Per quanto mi riguarda erano vent’anni che dormiva. Anzi, per quanto mi riguarda se ne vanno quasi tutti nel sonno, siamo pochi ad essere svegli per davvero. Vorrei risponderle così, ma mi trattengo per rispetto verso il suo dolore.
Il corpo di mio nonno è seppellito ancora lì, in quel cimitero. Ci sono tornato una sola volta dopo quel giorno. Ve ne parlerò.
Finito lo spettacolo della bara volante, ce ne torniamo a casa, e ci mettiamo tutti in cortile, sotto ad una grossa veranda, a parlare. Finalmente, a poco a poco, in qualche interminabile ora, se ne vanno anche i parenti e rimaniamo soltanto io ed i miei genitori, che iniziano a farmi le stesse domande che mi hanno fatto tutti gli altri fino a questo punto.
«Quand’è che riparti?»
«Stasera. Tra un paio d’ore passano a prendermi. Domani devo lavorare». Non è vero, ma è meglio così.
«Ah… peccato» non l’hanno bevuta, ma non dicono nulla, «Allora, com’è Amsterdam?»
«E’ vera. Mi piace per questo» rispondo.
«Ti trovi bene con il lavoro allora»
«Abbastanza, la paga è buona»
«E la vita a Milano come ti va?» insistono.
Io li guardo entrambi prima di rispondere, poi guardo la pioggia che cade davanti a noi nella stradina deserta, e guardo di nuovo loro.
«Uno schifo» gli dico, «ma almeno è vita».
Mio papà, immagino stizzito dalle mie risposte, se ne rientra in casa, io rimango solo con mamma.
«Gli occhiali», le dico, «perché non te li togli?».
«Va tutto bene» mi fa lei, «non ti preoccupare» e prende e se ne va a preparare la cena, mentre io rimango là fuori a fumare. E pensare.
Ceniamo poco dopo, sempre lì in cortile, sempre sotto la veranda. Praticamente nessuno dice una parola. 
Dopo cena, il mio amico mi chiama: sta per arrivare sotto casa.
Io vado in cucina da mia madre per salutarla, lei ha ancora addosso quei fottuti occhiali neri.
«Io vado» le dico. 
Mi abbraccia forte, e mentre lo fa le alzo gli occhiali e le scopro il viso.
Dejavù.
«Davvero, va tutto bene, non ti preoccupare» mi dice di nuovo lei.
Io guardo l’ematoma attorno all’occhio, riabbasso gli occhiali e me ne esco di casa. Mio padre non lo saluto nemmeno. 
Una volta che sono fuori, passo accanto alla sua vecchia macchina, che è parcheggiata lì davanti. Prendo un sasso e gli rigo il cofano, ma dato che è bianco non sono nemmeno contento del danno fatto.
Il mio amico arriva proprio in quel momento, proprio mentre penso se spaccare o meno il finestrino. Quando salgo sulla sua macchina ho ancora il sasso in mano, pronto a rifare tutto il viaggio con me, come un fedele compagno. 
Sono contento di andarmene da qui, voglio tornare a Milano. Voglio tornare a casa.
E' sera ormai, ed è nelle luci della sera che io ricomincio la mia fuga, il mio viaggio di ritorno, il mio nostos. 
Come ho già detto, su quello, non ci vedo proprio nulla da raccontare.

mercoledì 28 ottobre 2015

Capitolo 4

Nell’immaginario collettivo degli Anni Zero, Amsterdam rappresentava quello che rappresenta adesso, ma molto, molto più in grande.
Io, che non avevo mai valicato le Alpi, che quando mi chiedevano se ero mai stato all’estero rispondevo «una volta, a San Marino», me l’ero sempre immaginata come un immenso parco giochi. Quella sera, mi accorsi che mi sbagliavo. Era molto di più.
Se devo essere sincero, di Amsterdam non è che mi interessasse la droga, che avevo già provato in lungo e in largo anche a Milano, e nemmeno le donne. Ok, le donne un po’ sì, ma non è questo il punto. Tutto ciò era soltanto un bene accessorio, un di più. Quello che mi interessava davvero era provare quell’atmosfera, quella possibilità di poter scegliere se fare o non fare qualsiasi cosa. Se non fossi un idealista del *****, questa cosa qui la potrei chiamare libertà, e vi assicuro che ci andrei molto vicino. Era questo che Amsterdam rappresentava: l’essenza stessa della libertà.
Io, il ragazzino venuto dal paese di cento-cinquantotto-abitanti, quando ero arrivato a Milano credevo di avvicinarmi al cuore del mondo. Come mi sbagliavo… Milano era solo una porta socchiusa da cui spiarlo il mondo, a volte quasi toccarlo magari, ma niente di più.
Eppure, da qualche parte questa maledetta idea di mondo doveva pur essere, no?
Ecco, non so bene perché, ma io e quelli come me avevamo scelto che questa idea, questo sogno, avesse delle coordinate geografiche precise, una città con tanto di cartolina. Negli Anni Zero, per noi ragazzi italiani senza un domani, non poteva che essere lei, Amsterdam. Il concentrato di mondo, la spremuta di umanità, il passato di futuro. E scusate il gioco di parole barocco e malriuscito. 
Va bene, a questo punto dovete fare il prossimo step. Tentate di mettervi nei miei panni, tralasciate il mio terrore per la parte lavorativa, e provate ad intraprendere con me quel viaggio nel paese delle meraviglie. 
Adesso voi siete me, il ragazzo di paese in fuga verso la libertà, quella fuga tipica delle favole con tanto di principi, principesse e draghi. E se le mie principesse erano donne chiuse in vetrine, e i draghi erano i mostri della mia mente scatenate dal sogno di nuove droghe, era soltanto un caso. Io il mondo lo prendevo come veniva. 
Ecco, adesso la smetto. Direi che ora è giunto il momento di riprendere un po’ la mia storia, che altrimenti qua, a furia di digressioni, tutto l’arco narrativo va a farsi benedire. 
Per raccontare quella sera faccio una cosa strana, mi ricollego a quel ramo della psicologia tanto caro agli uomini del Marketing. La frase è mia, ma sono sicuro del fatto che, non essendo così speciale, sia stata già detta e ridetta da altri. I due punti li metto a capo, giusto per fare un po’ di sana anarchia grammaticale.
: La vita non è altro che il modo che abbiamo noi umani di soddisfare i nostri bisogni, prima quelli per la sopravvivenza, poi tutti gli altri.
E, con ciò detto, il viaggio riprende.
    Primo Bisogno. 
Il capo sceglie questo ristorantino a due passi dal centro. Io, che vivevo a toast bruciacchiati e McDonald’s , mi ritrovo a mangiare per la prima volta quello che mangiano i ricchi, quei piatti ridicoli e nemmeno così buoni che in compenso paghi come un’intera cena per quattro. Devo ammettere che -sarà stato il fatto che non ci ho sborsato un quattrino, o forse che ci siamo scolati due bottiglie di bianco per i festeggiamenti- la cena l’ho comunque gradita. 
Quando usciamo dal ristorante sono già le 10 passate e fuori fa un freddo cane. Non essendo periodo turistico, la città è semideserta. Passeggiamo per i vicoli del centro, zigzagando in mezzo a canali e case a punta, ed ecco che ci troviamo ad un certo punto nella famosa zona delle vetrine rosse, il RedLightDiscrict.
Brividi, e non solo per il freddo.
Ve lo giuro, io una sensazione così non l’ho mai più provata in vita mia. Provo a descriverla per chi non c’è mai stato, ma vi assicuro che è quasi impossibile. 
La prima cosa che colpisce è il degrado, quello più marcio e fetido. Spacciatori che vi guardano in cerca di un segno, ragazze seminude di tutte le razze ed età che vi chiamano dalle loro vetrine rosse. L’odore di cannabis e di acqua sporca, le luci al neon dei locali dove la gente entra per giocare d’azzardo o per masturbarsi guardando donne che si strusciano ad un palo. Il sudore, i preservativi buttati, i soldi che passano da una mano all’altra. Il tempo, che fa finta di scorrere.
La prima sensazione è dunque un senso di disgusto, ed è un disgusto che provate per voi stessi, come se ancora una volta siate voi a dovervi prendere le colpe di tutto.
Ma poi, ad un certo punto, succede. 
Lo sguardo si allarga, la vostra mente sceglie di mutare paradigma, di guardare l’ambiente nel suo insieme. Ed è lì che vi scatta dentro qualcosa. 
Là fuori tutto rimane come prima, eppure di colpo tutto si fa diverso, perché a cambiare siete stati voi. Forse, se siete pazzi tanto quanto me, potrete rivedere quelle scene decadenti e scorgerne un affresco quasi romantico. 
È solo una questione di percezione.
Guardatele, quelle ragazze e quelle insegne. Sono soltanto inquiline di abitazioni così belle da togliere il respiro, case strette, piene di finestre, pendenti, immagini che sembrano uscite dal pennello di un pittore fiammingo. E gli spacciatori? Appoggiati coi loro gomiti alle balaustre dei ponti sospesi nel vuoto, metafora perfetta di chi ha scelto quella vita. Distogliete lo sguardo dai neon, per ritrovarli sbiaditi coi loro giochi di luce, distorti e rifratti, nell’acqua dei canali sotto di voi. Percorrete quelle vie strettissime, e lasciate che si aprano di colpo su di una piazza con al centro una chiesa. Sacro e profano che si intrecciano e si impongono nelle loro differenze diventando valori assoluti. 
Amsterdam, o almeno una parte di lei, è tutto questo, e altro ancora.
Ma andiamo avanti, ritorniamo a quella sera.
Passeggiando per quelle vie la presenza femminile della collega inizia a farsi un po’ ingombrante, ed è un peccato, perché il capo, da alticcio, sembra decisamente più arzillo del previsto, e ho l’impressione che la serata potrebbe svoltare.
L’assist, grazie a Dio, arriva direttamente da lei (scusate se non vi ho ancora detto il suo nome, ma semplicemente non ha nessuna importanza nella storia. Se per questo non ho detto nemmeno quello del capo, né del mio amico, né, soprattutto, il mio. Bè, ormai è tardi. Nel senso: ormai è come quando conosci una persona ma non vi siete scambiate il nome, e adesso è passato troppo tempo per chiederlo, sarebbe una cosa imbarazzante. Merda mi sto di nuovo perdendo in discorsi inutili. Chiusa parentesi). Dicevo, l’assist ce lo da lei, la mia collega, che ad un certo punto ci chiede di portarla in hotel perché ha freddo, ha bevuto un po’ troppo e vuole dormire. Io credo che avesse capito che fosse il momento di sguinzagliare gli uomini e togliersi di mezzo. In ogni caso, noi abbiamo davvero gradito. La accompagniamo dunque in hotel e decidiamo di svignarcela ancora, rituffandoci nelle vie del centro, in cerca di qualche locale. Inutile dirlo, casualmente ci ritroviamo nella zona rossa.
    Secondo bisogno.
«Se te la offrissi io, la prestazione, da quale andresti?» mi chiede lui a un certo punto.
Io ho la commozione negli occhi che neanche San Francesco che vede un cucciolo di panda morire affogato nelle lacrime di sua madre. Ok scusate, questa volta sono andato troppo avanti con la similitudine, mea culpa. (E comunque la madre va bene sia del panda che di San Francesco, fate voi.)
«Non saprei, non ci sono mai andato» faccio io, ed era vero, «di sicuro una bionda».
«Quella va bene?». Urca se andava bene.
Fino a quel punto io credevo stesse semplicemente facendo conversazione, ma eccolo che parte per la tangente e bussa alla vetrina di questa biondona da 1 e 90, iniziando a contrattare in inglese. Le parole che dice, adesso sono le più cliccate sui motori di ricerca di tutto il mondo, nei primi Anni Zero invece erano una cosa di nicchia, da gente che ne sapeva. Io sono lì dietro di lui che osservo la scena senza capire una parola, con gli occhi sbarrati sul seno della simpatica ragazza. Dopo una lunga trattativa, il capo mi batte sulla spalla e mi da 50 euro in mano, il tutto davanti a lei. 
«Per te, ho rimediato il servizio completo, per me, il premio miglior datore di lavoro dell’anno». E si allontana. 
La ragazza guarda basita lo scambio di soldi e quell’uomo andarsene, poi guarda me.
«Oh, what a father!» mi dice stupita, e poi mi prende per mano e mi accompagna su per le scale.
Tralascio il successivo quarto d’ora della mia vita, è poca cosa. 
Uscito nuovamente in strada mi ritrovo a cercare il capo, che è sparito dalla circolazione. Cinque minuti dopo lo vedo sgattaiolare fuori da una vetrina non lontano dalla mia, accompagnato alla porta da una donnona matura un po’ larga di fianchi e con un neo enorme sulla guancia. Oh, i gusti son gusti.
    Terzo bisogno.
Coffee shop, l’idea è la mia e quindi questa volta offro io. È lì, seduti a un tavolo, che lui mi dice persino di smetterla di dargli del Lei. In effetti stava diventando un po’ bizzarro, dopo l’essere andati a zoccole e a drogarci come due amiconi. Che poi parliamone, se farsi di cannabis è considerato drogarsi, allora prendere in braccio tua figlia dovrebbe essere considerato pedofilia. No ragazzi, non scherziamo dai. Un po’ di oggettività *****. Va bè, su questa parte della serata non saprei che altro dire, se non che usciamo dopo mezzora un po’ più rilassati, con gli occhi rossi e Bob Marley nelle orecchie. 
È mezzanotte passata ormai, e stiamo vagando in zona vetrine per un’ultima occhiata prima di ritornare in hotel. Ad un certo punto il boss si ferma, proprio davanti ad un insegna rossa. Casinò. 
   Quarto bisogno. Un bisogno che fino a quella sera non sapevo nemmeno di avere.
«Sai giocare a Poker?» mi chiede lui.
«Qualcosina» dico io, «ma non ricordo mai le regole. Preferisco la briscola». 
«Io una partitina me la farei, dai mezzora e ce ne andiamo. Che ne dici?»
È strana la vita. Mi chiedo ancora cosa sarebbe successo se avessi risposto diversamente. È che certe volte ci si ritrova a imboccare un bivio senza nemmeno rendersene conto. 
«Tu gioca, io guardo soltanto» concludo.
Entriamo, il Casinò è semivuoto. Un uomo in giacca e papillon lo fa sedere ad un tavolo in una sala con il soffitto bassissimo. Io mi piazzo dietro di lui a qualche metro di distanza, come un bodyguard.
Per giocare servono almeno 100 euro, li tira fuori dalle tasche e gli danno le fiches. È la prima volta che le vedo dal vivo, fino ad allora per me erano una cosa vista soltanto nei film. La ragazza che fa le carte, se fosse in vetrina, avrebbe la fila che arriva fino a Utrecht. 
Mi ricordo che la cosa che mi colpisce è che ne serve due a testa. Adesso chiunque conosce il Texas Holdem, ma all’epoca vi assicuro che era pressoché sconosciuto alla gente fuori da quel mondo lì. O almeno, io il poker lo avevo sempre e solo giocato a cinque, ad esempio. A due carte non avrei nemmeno saputo da che parte girarle. 
Guardo un paio di giri di bui, poi mi annoio, anche perché il capo non ne gioca nemmeno una, così mi fiondo alla roulette. Punto metà dei miei soldi sul rosso, me lo ricordo perché ho preso la mia scelta ripensando alle mutande della bionda. Vinco, e decido che la mia serata finisce qui.
Cambio le fiches vinte alla cassa vicino all’uscita e mi piazzo ad aspettare appoggiato alla ringhiera del canale, proprio come uno spacciatore. Metto la mano nella tasca del giubbotto, scanso una fiches da 5 euro che ho tenuto come porta fortuna, e ne tiro fuori una canna già rollata che ho comprato poco prima. Appena trovo qualcuno per accendere, il capo esce dal casinò e mi viene incontro.
«Le nostre amichette le ha offerte la dea bendata» mi fa, appena mi raggiunge.
«Vinto qualcosa?»
«Raddoppiato»
«Wow. Devi insegnarmi a giocare, con due carte non sono buono».
«Devo ancora capire in cosa sei buono tu». Gli piace un sacco prendermi in giro.
Forse, vi aspettavate che fosse successo qualcosa di più nelle mura di quel casinò, ma la verità è questa: quella sera non è successo un bel nulla. 
All’inferno ci si arriva dopo una vita intera, non vi ci catapultano in un’istante.
Se mi chiedete dov’è che tutto è iniziato però, non posso che dirvi che la mia mente va sempre lì, a ripensare a quella sera. 
In ogni caso, come dico sempre, ogni cosa a suo tempo.
Quello che succede, poi, è che torniamo in hotel come due vecchi amici, camminando da soli nella notte di Amsterdam, finendo l’ultima canna proprio davanti al portone d’ingresso di quel posto di lusso, per poi, finalmente, risalire in camera.
   Quinto bisogno. 
Buonanotte.

mercoledì 21 ottobre 2015

Capitolo 3

Immagino che ormai tutti lo abbiate colto, ma in ogni caso adesso è giunto il momento di sciogliere eventuali dubbi. Mi scuso a priori, che tanto fa sempre bene, per questa digressione.
Questi fatti, e buona parte di quelli che mi accingo a raccontare, si sono svolti nei primi anni 2000. Alla storia, se si può usare questa espressione per parlare di un periodo che è praticamente ieri, sarebbero passati come gli Anni Zero.
Io sarò un idiota, ma credo che nei primi anni di un secolo si possano sempre scorgere degli indizi riguardo a quello che succederà nei successivi cento anni. Se non accettate questa tesi, almeno lasciatemi passare il fatto che sono sempre anni in cui c’è un’aria nuova. Forse è qualcosa di psicologico: è il vedere quelle cifre così basse nei calendari sotto i nostri occhi, come se si ripartisse da capo, come se tutti gli sbagli commessi dalle generazioni precedenti fossero perdonati per sempre. 01, 02, 03, 04 e così via. È l’inizio di tutto, non lo vedete? 
Noi vissuti negli Anni Zero siamo stati i depositari di questo immenso dono: il dono della pagina bianca. La possibilità di poter scrivere da capo il nostro futuro. Forse è un pensiero stupido, lo so, ma è quello che credo. 
Non devo certo essere io a ricordarvi come abbiamo scelto di iniziare questa storia, cosa ne abbiamo fatto di questa pagina bianca.
Appena arrivati al conto dell’ 1 ci siamo schiantati con i nostri aerei contro le Torri, per poi professare guerre senza motivo, sublimando le nostre paure dentro a volti scuri e barbuti visti in televisione. Abbiamo ignorato i genocidi dell’Africa e le guerre di pace, creando mostri che prima o poi presenteranno il conto, e forse lo stanno già facendo. 
Dopo quella falsa partenza potevamo raddrizzare la rotta, ritornare in carreggiata. E noi? Noi abbiamo fatto tutt'altro. Senza neanche arrivare al 10 abbiamo creato la più grande ed eterogenea crisi economica mai vista nella modernità. Anche in questo caso le vere conseguenze le pagheremo soltanto in futuro. Perché le conseguenze di una crisi di questo livello, quelle vere, non sono economiche. E non è una mia previsione: in queste casi la storia ha valore di scienza tanto quanto la matematica.
Lo so che il “Noi” è un po’ scomodo da leggere. Lo so che Noi non vogliamo centrare nulla con tutto questo, ma qualcuno dovrà pur prendersele queste colpe. Le cose non avvengono sempre e solo per caso: tutto, tranne il caso stesso, ha una sua causa. Non sto dicendo che la colpa è stata nostra, sto solo dicendo che ce la daranno.
Lo stanno già facendo, ci stanno già additando come colpevoli, ed è per questo che mi piace ricordare che Noi siamo stati anche altro. 
Già, perché se ripercorro mentalmente quegli anni, mi accorgo che un po’, dopotutto, forse l’occasione della pagina bianca l’abbiamo colta. Abbiamo creato il boom di internet e dei telefonini, costruito macchine sempre più grosse e schermi sempre più sottili. Noi, e i nostri Anni Zero. Gli anni delle figlie che sposano persone di culture lontane, gli anni della moneta unica, gli anni in cui la scienza ha fatto passi da gigante, giorno dopo giorno, senza nemmeno accorgersene. Quelli dell’Europa senza barriere, delle Tv a pagamento, degli studenti Erasmus e dei voli sempre meno cari.
Insomma, sono stati gli anni in cui tutto si è unito, e il mondo, da immenso che era, è diventato poco più che una piccola, buffa, pallina in volo. 
Metteteci anche questo sulle Nostre tombe, quando verrà il momento.