mercoledì 28 ottobre 2015

Capitolo 4

Nell’immaginario collettivo degli Anni Zero, Amsterdam rappresentava quello che rappresenta adesso, ma molto, molto più in grande.
Io, che non avevo mai valicato le Alpi, che quando mi chiedevano se ero mai stato all’estero rispondevo «una volta, a San Marino», me l’ero sempre immaginata come un immenso parco giochi. Quella sera, mi accorsi che mi sbagliavo. Era molto di più.
Se devo essere sincero, di Amsterdam non è che mi interessasse la droga, che avevo già provato in lungo e in largo anche a Milano, e nemmeno le donne. Ok, le donne un po’ sì, ma non è questo il punto. Tutto ciò era soltanto un bene accessorio, un di più. Quello che mi interessava davvero era provare quell’atmosfera, quella possibilità di poter scegliere se fare o non fare qualsiasi cosa. Se non fossi un idealista del *****, questa cosa qui la potrei chiamare libertà, e vi assicuro che ci andrei molto vicino. Era questo che Amsterdam rappresentava: l’essenza stessa della libertà.
Io, il ragazzino venuto dal paese di cento-cinquantotto-abitanti, quando ero arrivato a Milano credevo di avvicinarmi al cuore del mondo. Come mi sbagliavo… Milano era solo una porta socchiusa da cui spiarlo il mondo, a volte quasi toccarlo magari, ma niente di più.
Eppure, da qualche parte questa maledetta idea di mondo doveva pur essere, no?
Ecco, non so bene perché, ma io e quelli come me avevamo scelto che questa idea, questo sogno, avesse delle coordinate geografiche precise, una città con tanto di cartolina. Negli Anni Zero, per noi ragazzi italiani senza un domani, non poteva che essere lei, Amsterdam. Il concentrato di mondo, la spremuta di umanità, il passato di futuro. E scusate il gioco di parole barocco e malriuscito. 
Va bene, a questo punto dovete fare il prossimo step. Tentate di mettervi nei miei panni, tralasciate il mio terrore per la parte lavorativa, e provate ad intraprendere con me quel viaggio nel paese delle meraviglie. 
Adesso voi siete me, il ragazzo di paese in fuga verso la libertà, quella fuga tipica delle favole con tanto di principi, principesse e draghi. E se le mie principesse erano donne chiuse in vetrine, e i draghi erano i mostri della mia mente scatenate dal sogno di nuove droghe, era soltanto un caso. Io il mondo lo prendevo come veniva. 
Ecco, adesso la smetto. Direi che ora è giunto il momento di riprendere un po’ la mia storia, che altrimenti qua, a furia di digressioni, tutto l’arco narrativo va a farsi benedire. 
Per raccontare quella sera faccio una cosa strana, mi ricollego a quel ramo della psicologia tanto caro agli uomini del Marketing. La frase è mia, ma sono sicuro del fatto che, non essendo così speciale, sia stata già detta e ridetta da altri. I due punti li metto a capo, giusto per fare un po’ di sana anarchia grammaticale.
: La vita non è altro che il modo che abbiamo noi umani di soddisfare i nostri bisogni, prima quelli per la sopravvivenza, poi tutti gli altri.
E, con ciò detto, il viaggio riprende.
    Primo Bisogno. 
Il capo sceglie questo ristorantino a due passi dal centro. Io, che vivevo a toast bruciacchiati e McDonald’s , mi ritrovo a mangiare per la prima volta quello che mangiano i ricchi, quei piatti ridicoli e nemmeno così buoni che in compenso paghi come un’intera cena per quattro. Devo ammettere che -sarà stato il fatto che non ci ho sborsato un quattrino, o forse che ci siamo scolati due bottiglie di bianco per i festeggiamenti- la cena l’ho comunque gradita. 
Quando usciamo dal ristorante sono già le 10 passate e fuori fa un freddo cane. Non essendo periodo turistico, la città è semideserta. Passeggiamo per i vicoli del centro, zigzagando in mezzo a canali e case a punta, ed ecco che ci troviamo ad un certo punto nella famosa zona delle vetrine rosse, il RedLightDiscrict.
Brividi, e non solo per il freddo.
Ve lo giuro, io una sensazione così non l’ho mai più provata in vita mia. Provo a descriverla per chi non c’è mai stato, ma vi assicuro che è quasi impossibile. 
La prima cosa che colpisce è il degrado, quello più marcio e fetido. Spacciatori che vi guardano in cerca di un segno, ragazze seminude di tutte le razze ed età che vi chiamano dalle loro vetrine rosse. L’odore di cannabis e di acqua sporca, le luci al neon dei locali dove la gente entra per giocare d’azzardo o per masturbarsi guardando donne che si strusciano ad un palo. Il sudore, i preservativi buttati, i soldi che passano da una mano all’altra. Il tempo, che fa finta di scorrere.
La prima sensazione è dunque un senso di disgusto, ed è un disgusto che provate per voi stessi, come se ancora una volta siate voi a dovervi prendere le colpe di tutto.
Ma poi, ad un certo punto, succede. 
Lo sguardo si allarga, la vostra mente sceglie di mutare paradigma, di guardare l’ambiente nel suo insieme. Ed è lì che vi scatta dentro qualcosa. 
Là fuori tutto rimane come prima, eppure di colpo tutto si fa diverso, perché a cambiare siete stati voi. Forse, se siete pazzi tanto quanto me, potrete rivedere quelle scene decadenti e scorgerne un affresco quasi romantico. 
È solo una questione di percezione.
Guardatele, quelle ragazze e quelle insegne. Sono soltanto inquiline di abitazioni così belle da togliere il respiro, case strette, piene di finestre, pendenti, immagini che sembrano uscite dal pennello di un pittore fiammingo. E gli spacciatori? Appoggiati coi loro gomiti alle balaustre dei ponti sospesi nel vuoto, metafora perfetta di chi ha scelto quella vita. Distogliete lo sguardo dai neon, per ritrovarli sbiaditi coi loro giochi di luce, distorti e rifratti, nell’acqua dei canali sotto di voi. Percorrete quelle vie strettissime, e lasciate che si aprano di colpo su di una piazza con al centro una chiesa. Sacro e profano che si intrecciano e si impongono nelle loro differenze diventando valori assoluti. 
Amsterdam, o almeno una parte di lei, è tutto questo, e altro ancora.
Ma andiamo avanti, ritorniamo a quella sera.
Passeggiando per quelle vie la presenza femminile della collega inizia a farsi un po’ ingombrante, ed è un peccato, perché il capo, da alticcio, sembra decisamente più arzillo del previsto, e ho l’impressione che la serata potrebbe svoltare.
L’assist, grazie a Dio, arriva direttamente da lei (scusate se non vi ho ancora detto il suo nome, ma semplicemente non ha nessuna importanza nella storia. Se per questo non ho detto nemmeno quello del capo, né del mio amico, né, soprattutto, il mio. Bè, ormai è tardi. Nel senso: ormai è come quando conosci una persona ma non vi siete scambiate il nome, e adesso è passato troppo tempo per chiederlo, sarebbe una cosa imbarazzante. Merda mi sto di nuovo perdendo in discorsi inutili. Chiusa parentesi). Dicevo, l’assist ce lo da lei, la mia collega, che ad un certo punto ci chiede di portarla in hotel perché ha freddo, ha bevuto un po’ troppo e vuole dormire. Io credo che avesse capito che fosse il momento di sguinzagliare gli uomini e togliersi di mezzo. In ogni caso, noi abbiamo davvero gradito. La accompagniamo dunque in hotel e decidiamo di svignarcela ancora, rituffandoci nelle vie del centro, in cerca di qualche locale. Inutile dirlo, casualmente ci ritroviamo nella zona rossa.
    Secondo bisogno.
«Se te la offrissi io, la prestazione, da quale andresti?» mi chiede lui a un certo punto.
Io ho la commozione negli occhi che neanche San Francesco che vede un cucciolo di panda morire affogato nelle lacrime di sua madre. Ok scusate, questa volta sono andato troppo avanti con la similitudine, mea culpa. (E comunque la madre va bene sia del panda che di San Francesco, fate voi.)
«Non saprei, non ci sono mai andato» faccio io, ed era vero, «di sicuro una bionda».
«Quella va bene?». Urca se andava bene.
Fino a quel punto io credevo stesse semplicemente facendo conversazione, ma eccolo che parte per la tangente e bussa alla vetrina di questa biondona da 1 e 90, iniziando a contrattare in inglese. Le parole che dice, adesso sono le più cliccate sui motori di ricerca di tutto il mondo, nei primi Anni Zero invece erano una cosa di nicchia, da gente che ne sapeva. Io sono lì dietro di lui che osservo la scena senza capire una parola, con gli occhi sbarrati sul seno della simpatica ragazza. Dopo una lunga trattativa, il capo mi batte sulla spalla e mi da 50 euro in mano, il tutto davanti a lei. 
«Per te, ho rimediato il servizio completo, per me, il premio miglior datore di lavoro dell’anno». E si allontana. 
La ragazza guarda basita lo scambio di soldi e quell’uomo andarsene, poi guarda me.
«Oh, what a father!» mi dice stupita, e poi mi prende per mano e mi accompagna su per le scale.
Tralascio il successivo quarto d’ora della mia vita, è poca cosa. 
Uscito nuovamente in strada mi ritrovo a cercare il capo, che è sparito dalla circolazione. Cinque minuti dopo lo vedo sgattaiolare fuori da una vetrina non lontano dalla mia, accompagnato alla porta da una donnona matura un po’ larga di fianchi e con un neo enorme sulla guancia. Oh, i gusti son gusti.
    Terzo bisogno.
Coffee shop, l’idea è la mia e quindi questa volta offro io. È lì, seduti a un tavolo, che lui mi dice persino di smetterla di dargli del Lei. In effetti stava diventando un po’ bizzarro, dopo l’essere andati a zoccole e a drogarci come due amiconi. Che poi parliamone, se farsi di cannabis è considerato drogarsi, allora prendere in braccio tua figlia dovrebbe essere considerato pedofilia. No ragazzi, non scherziamo dai. Un po’ di oggettività *****. Va bè, su questa parte della serata non saprei che altro dire, se non che usciamo dopo mezzora un po’ più rilassati, con gli occhi rossi e Bob Marley nelle orecchie. 
È mezzanotte passata ormai, e stiamo vagando in zona vetrine per un’ultima occhiata prima di ritornare in hotel. Ad un certo punto il boss si ferma, proprio davanti ad un insegna rossa. Casinò. 
   Quarto bisogno. Un bisogno che fino a quella sera non sapevo nemmeno di avere.
«Sai giocare a Poker?» mi chiede lui.
«Qualcosina» dico io, «ma non ricordo mai le regole. Preferisco la briscola». 
«Io una partitina me la farei, dai mezzora e ce ne andiamo. Che ne dici?»
È strana la vita. Mi chiedo ancora cosa sarebbe successo se avessi risposto diversamente. È che certe volte ci si ritrova a imboccare un bivio senza nemmeno rendersene conto. 
«Tu gioca, io guardo soltanto» concludo.
Entriamo, il Casinò è semivuoto. Un uomo in giacca e papillon lo fa sedere ad un tavolo in una sala con il soffitto bassissimo. Io mi piazzo dietro di lui a qualche metro di distanza, come un bodyguard.
Per giocare servono almeno 100 euro, li tira fuori dalle tasche e gli danno le fiches. È la prima volta che le vedo dal vivo, fino ad allora per me erano una cosa vista soltanto nei film. La ragazza che fa le carte, se fosse in vetrina, avrebbe la fila che arriva fino a Utrecht. 
Mi ricordo che la cosa che mi colpisce è che ne serve due a testa. Adesso chiunque conosce il Texas Holdem, ma all’epoca vi assicuro che era pressoché sconosciuto alla gente fuori da quel mondo lì. O almeno, io il poker lo avevo sempre e solo giocato a cinque, ad esempio. A due carte non avrei nemmeno saputo da che parte girarle. 
Guardo un paio di giri di bui, poi mi annoio, anche perché il capo non ne gioca nemmeno una, così mi fiondo alla roulette. Punto metà dei miei soldi sul rosso, me lo ricordo perché ho preso la mia scelta ripensando alle mutande della bionda. Vinco, e decido che la mia serata finisce qui.
Cambio le fiches vinte alla cassa vicino all’uscita e mi piazzo ad aspettare appoggiato alla ringhiera del canale, proprio come uno spacciatore. Metto la mano nella tasca del giubbotto, scanso una fiches da 5 euro che ho tenuto come porta fortuna, e ne tiro fuori una canna già rollata che ho comprato poco prima. Appena trovo qualcuno per accendere, il capo esce dal casinò e mi viene incontro.
«Le nostre amichette le ha offerte la dea bendata» mi fa, appena mi raggiunge.
«Vinto qualcosa?»
«Raddoppiato»
«Wow. Devi insegnarmi a giocare, con due carte non sono buono».
«Devo ancora capire in cosa sei buono tu». Gli piace un sacco prendermi in giro.
Forse, vi aspettavate che fosse successo qualcosa di più nelle mura di quel casinò, ma la verità è questa: quella sera non è successo un bel nulla. 
All’inferno ci si arriva dopo una vita intera, non vi ci catapultano in un’istante.
Se mi chiedete dov’è che tutto è iniziato però, non posso che dirvi che la mia mente va sempre lì, a ripensare a quella sera. 
In ogni caso, come dico sempre, ogni cosa a suo tempo.
Quello che succede, poi, è che torniamo in hotel come due vecchi amici, camminando da soli nella notte di Amsterdam, finendo l’ultima canna proprio davanti al portone d’ingresso di quel posto di lusso, per poi, finalmente, risalire in camera.
   Quinto bisogno. 
Buonanotte.

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