mercoledì 21 ottobre 2015

Capitolo 2

Quello che ancora non avevo capito, della mia azienda, era quanto facesse le cose in grande. Per dirvi, appena atterrati ad Amsterdam un’autista ci accoglie con il suo bel foglietto scritto a mano, per poi accompagnarci al suo Mercedes nero. L’hotel in cui ci scarica, poco lontano dal centro città, è uno di quelli che quando entri ti pare d’essere in un museo. Cinque stelle con tanto di fontanone all’entrata. Tre camere per una notte, in uno di quegli hotel, ti costano stipendi interi. Che poi le camere non sono state nemmeno tre, perché per un errore di prenotazione, invece di tre singole, ci danno una singola e una matrimoniale. Ça va sans dire, il tentativo di dormire con la collega l’ho fatto, anche perché non era mica male, anzi. Il suo problema era il fatto che fosse fidanzatissima, una di quelle che ti alza barriere architettoniche appena le fai una battutina.
Il mio capo (o meglio ex-capo, a quanto pareva) per galanteria e un po’ di pudore lascia dormire lei nella singola, e a me, dunque, tocca la camerata maschile. Mi offro di andare a cercare un altro hotel nelle vicinanze, più che altro per rispettare il divario gerarchico tra me e lui, ma inaspettatamente si dimostra più alla mano di quanto possa sembrare. Ecco, a proposito di lui, direi che è giunto il momento di descriverlo un po’, più che altro perché, nonostante tutto, ha un ruolo importante nella mia vicenda. Il nome per ora non lo dico, lo dirò più avanti, se me ne viene voglia, ma non vi posso garantire che sarà quello vero, dato come sono finite le cose.
Lui: occhi di ghiaccio, la erre come la pronunciano i ricchi, più verso i 50 che i 40, magro, ma di quella magrezza che, non so perché, pensi sempre che se ci fai a pugni le prendi sicuro. Alto, senza neanche un pelo in testa, vestiti così firmati che nemmeno il block notes di un collezionista di autografi. Insomma io, con uno così, non avevo proprio un bel nulla in comune. Va bene, scusate per la descrizione, era solo per farvelo inquadrare un po’. Procediamo. 
Dopo una doccia veloce, risaliamo sulla Mercedes e ci dirigiamo dal cliente a Uthrect (sempre che si scriva così), che dista mezz’oretta di macchina da Amsterdam.
Il clima è teso, il mio capo non dice una parola, l’altra ragazza mi rompe le ***** per tutto il viaggio ripetendomi la lezione, come se fosse una scolaretta la mattina dell’interrogazione. Arrivati a Uthrecht (lo scrivo in modo diverso, così almeno una volta ci prendo), la attraversiamo, poi proseguiamo per altri dieci minuti fino a ritrovarci in un'area industriale. Oggi se non sbaglio è stata inglobata dalla città, ma allora era una zona semiabbandonata in cui, rispetto a tutto il resto, la nostra Mercedes sembrava una macchina venuta dal futuro. 
A un certo punto l’autista ferma l'astronave; io e la collega ci guardiamo negli occhi con espressione incredula. Siamo arrivati? Qui? Insomma, tutto ci aspettavamo, tranne che l’incontro si tenesse in un posto del genere. Ci eravamo fatti due ore di volo e quaranta minuti di Mercedes-da-ricchi-sfondati, tutti infighettati nei nostri vestiti migliori, per arrivare ad un casolare a un piano, ingrigito e mezzo diroccato, in un posto sperduto nella più marcia delle periferie? E noi che ci eravamo prefigurati villoni megagalattici, uffici all’ultimo piano di grattacieli di vetro, fanfare e trombe ad accogliere il nostro trionfante ingresso in Uhtrec (scrivere Utrect mi pareva brutto).
Il capo, come se fosse la cosa più normale del mondo, scende dalla macchina e va dritto verso la porta in ferro. Fuori, stranamente, non c’è la maniglia, e nemmeno un campanello. Una telecamera ci osserva, e io ho come l'impressione che qualcosa non vada, senza bene sapere il perché. 
Dopo qualche istante la porta si apre e un giapponesino di neanche quindici anni si palesa per invitarci all’interno. Appena entrati, senza dire nulla, si fionda all’esterno e ci chiude dentro. Un altro asiatico, questa volta però bello anzianotto, ci accompagna al piano di sotto, giù per una scala strettissima, il tutto senza dire una singola parola. Comprenderete come io a questo punto mi sentissi dentro a un film di Quentin Tarantino, e fossi certo che dietro la porta in fondo alla scala avrei trovato nientepopòdimeno che la Yakuza al completo, con tanto di katane in mano e geishe come fermacarte. Ecco, niente di tutto questo. Quando il vecchio apre la porta vedo qualcosa che, se possibile, mi stupisce ancora di più delle mie previsioni pulp: uno stanzone infinito, così grosso che l’Inter sarebbe tranquillamente capace di perderci una partita regolamentare. Là dentro, praticamente intrappolati sotto un soffitto bassissimo, decine di donne e uomini asiatici in piedi davanti a dei macchinari grigi. Già, macchinari. Io inizio ad afferrare: quei macchinari, ognuno di quei modelli, noi li abbiamo nei nostri fascicoli. Ecco perché siamo lì.
Attraversiamo la stanza guidati dal giapponese anzianotto, passando in mezzo a tutta quella gente che si inchina e fa riverenze al nostro passaggio. Raggiungiamo dall’altra parte un ufficio con vetrata che dà sullo stanzone. Dentro c’è una scrivania completamente vuota, il caro vecchietto jappo si siede da un lato, il nostro capo si siede nell’unica sedia dal lato ospiti. Io e la mia collega, uno alla sua destra, uno alla sua sinistra, stiamo in piedi, come due angeli custodi. 
Mr. Sushi, che fino a questo punto non ci ha mai guardati in faccia e non ha mai detto una parola, di colpo apre le braccia e ci mostra un sorriso che è l’incubo notturno di ogni dentista. «Welcome to Holland». Benvenuti in Olanda.
A quel tempo, ripeto, ero una totale capra in inglese, e ciò mi impedì di capire i punti chiave della conversazione. Quello che ricordo distintamente è che a parlare è il mio capo, come se sia lui a dettare le regole, mentre l’altro annuisce e incassa. Ebbravo il boss, guardalo come tiene testa al Samurai. 
Ogni tanto, il vecchietto di Tekken guarda me e la mia collega, squadrandoci dal basso in alto. Dopo pochi minuti, i due si stringono la mano. Ritorniamo nello stanzone, ne segue un altro giro trionfale di inchini e riverenze, e poco dopo siamo di nuovo con le chiappe sulla nostra bella Mercedes in movimento.
Il capo, la prima cosa che fa è una chiamata in francese, così, giusto perché non sono già abbastanza confuso dalle lingue. Quando mette giù è l’uomo più felice del mondo.
«Ma tu ci hai capito qualcosa?» chiedo alla mia collega sottovoce.
«Gli abbiamo venduto quasi mezzo milione in macchinari quasi nuovi, e in più ritiriamo i loro usati funzionanti» dice lei. 
«Che rigireremo a Marsiglia per altri centomila euro» si intromette il capo, dal sedile davanti, «È l’operazione più grande che abbiamo mai fatto». 
E immagino che sia tutto molto legale, soprattutto. 
«Ma noi…oggi… a che le servivamo?» chiedo con sincera curiosità.
«A me proprio a niente.» mi risponde lui, «Servivate al cliente, doveva vedervi».
«Vederci per cosa?»
«Va bene, l’inglese non è il tuo forte, ma da uno come te mi aspettavo un po’ di perspicacia», e poi ride, godendo dal fatto che non ci ho ancora capito nulla, «Peccato che per licenziarti dovrò aspettare ancora un paio di mesi». 
Ecco, a questo punto, gentilmente, con molta pacatezza, avrei voluto prendergli quella palla da bowling che si ritrova al posto della testa e sbatterla violentemente contro il cruscotto, lui e quel suo dannato sorrisetto.
«Dobbiamo ritornare?» chiedo.
«Entrambi voi due piccioncini, in una romantica gita in solitaria nel paese dei tulipani. Insegnerete a usare alla perfezione i tre diversi modelli che abbiamo appena venduto».
Oh merda.
«In inglese, giustamente» dico io.
«Se preferisci va bene anche il cinese» fa lui.
...Cinesi! Dio me li confondo sempre.
«Abbiamo fatto il botto ragazzi, stasera si festeggia» continua il capo, iniziando a leggere dalla sua guida verde i nomi di ristoranti e locali del centro di Amsterdam.
Io, dal canto mio, avrei mille domande da porgli, ma semplicemente lascio svanire i dubbi e me ne torno a guardare la città di Utrecht (
) scorrere rapida, oscurata dal vetro del mio finestrino.
Il giorno dopo l'aereo ci avrebbe riportati a Milano. Davanti a noi, però, ancora quella sera, ancora quella notte. Ad Amsterdam.

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