mercoledì 28 ottobre 2015

Capitolo 4

Nell’immaginario collettivo degli Anni Zero, Amsterdam rappresentava quello che rappresenta adesso, ma molto, molto più in grande.
Io, che non avevo mai valicato le Alpi, che quando mi chiedevano se ero mai stato all’estero rispondevo «una volta, a San Marino», me l’ero sempre immaginata come un immenso parco giochi. Quella sera, mi accorsi che mi sbagliavo. Era molto di più.
Se devo essere sincero, di Amsterdam non è che mi interessasse la droga, che avevo già provato in lungo e in largo anche a Milano, e nemmeno le donne. Ok, le donne un po’ sì, ma non è questo il punto. Tutto ciò era soltanto un bene accessorio, un di più. Quello che mi interessava davvero era provare quell’atmosfera, quella possibilità di poter scegliere se fare o non fare qualsiasi cosa. Se non fossi un idealista del *****, questa cosa qui la potrei chiamare libertà, e vi assicuro che ci andrei molto vicino. Era questo che Amsterdam rappresentava: l’essenza stessa della libertà.
Io, il ragazzino venuto dal paese di cento-cinquantotto-abitanti, quando ero arrivato a Milano credevo di avvicinarmi al cuore del mondo. Come mi sbagliavo… Milano era solo una porta socchiusa da cui spiarlo il mondo, a volte quasi toccarlo magari, ma niente di più.
Eppure, da qualche parte questa maledetta idea di mondo doveva pur essere, no?
Ecco, non so bene perché, ma io e quelli come me avevamo scelto che questa idea, questo sogno, avesse delle coordinate geografiche precise, una città con tanto di cartolina. Negli Anni Zero, per noi ragazzi italiani senza un domani, non poteva che essere lei, Amsterdam. Il concentrato di mondo, la spremuta di umanità, il passato di futuro. E scusate il gioco di parole barocco e malriuscito. 
Va bene, a questo punto dovete fare il prossimo step. Tentate di mettervi nei miei panni, tralasciate il mio terrore per la parte lavorativa, e provate ad intraprendere con me quel viaggio nel paese delle meraviglie. 
Adesso voi siete me, il ragazzo di paese in fuga verso la libertà, quella fuga tipica delle favole con tanto di principi, principesse e draghi. E se le mie principesse erano donne chiuse in vetrine, e i draghi erano i mostri della mia mente scatenate dal sogno di nuove droghe, era soltanto un caso. Io il mondo lo prendevo come veniva. 
Ecco, adesso la smetto. Direi che ora è giunto il momento di riprendere un po’ la mia storia, che altrimenti qua, a furia di digressioni, tutto l’arco narrativo va a farsi benedire. 
Per raccontare quella sera faccio una cosa strana, mi ricollego a quel ramo della psicologia tanto caro agli uomini del Marketing. La frase è mia, ma sono sicuro del fatto che, non essendo così speciale, sia stata già detta e ridetta da altri. I due punti li metto a capo, giusto per fare un po’ di sana anarchia grammaticale.
: La vita non è altro che il modo che abbiamo noi umani di soddisfare i nostri bisogni, prima quelli per la sopravvivenza, poi tutti gli altri.
E, con ciò detto, il viaggio riprende.
    Primo Bisogno. 
Il capo sceglie questo ristorantino a due passi dal centro. Io, che vivevo a toast bruciacchiati e McDonald’s , mi ritrovo a mangiare per la prima volta quello che mangiano i ricchi, quei piatti ridicoli e nemmeno così buoni che in compenso paghi come un’intera cena per quattro. Devo ammettere che -sarà stato il fatto che non ci ho sborsato un quattrino, o forse che ci siamo scolati due bottiglie di bianco per i festeggiamenti- la cena l’ho comunque gradita. 
Quando usciamo dal ristorante sono già le 10 passate e fuori fa un freddo cane. Non essendo periodo turistico, la città è semideserta. Passeggiamo per i vicoli del centro, zigzagando in mezzo a canali e case a punta, ed ecco che ci troviamo ad un certo punto nella famosa zona delle vetrine rosse, il RedLightDiscrict.
Brividi, e non solo per il freddo.
Ve lo giuro, io una sensazione così non l’ho mai più provata in vita mia. Provo a descriverla per chi non c’è mai stato, ma vi assicuro che è quasi impossibile. 
La prima cosa che colpisce è il degrado, quello più marcio e fetido. Spacciatori che vi guardano in cerca di un segno, ragazze seminude di tutte le razze ed età che vi chiamano dalle loro vetrine rosse. L’odore di cannabis e di acqua sporca, le luci al neon dei locali dove la gente entra per giocare d’azzardo o per masturbarsi guardando donne che si strusciano ad un palo. Il sudore, i preservativi buttati, i soldi che passano da una mano all’altra. Il tempo, che fa finta di scorrere.
La prima sensazione è dunque un senso di disgusto, ed è un disgusto che provate per voi stessi, come se ancora una volta siate voi a dovervi prendere le colpe di tutto.
Ma poi, ad un certo punto, succede. 
Lo sguardo si allarga, la vostra mente sceglie di mutare paradigma, di guardare l’ambiente nel suo insieme. Ed è lì che vi scatta dentro qualcosa. 
Là fuori tutto rimane come prima, eppure di colpo tutto si fa diverso, perché a cambiare siete stati voi. Forse, se siete pazzi tanto quanto me, potrete rivedere quelle scene decadenti e scorgerne un affresco quasi romantico. 
È solo una questione di percezione.
Guardatele, quelle ragazze e quelle insegne. Sono soltanto inquiline di abitazioni così belle da togliere il respiro, case strette, piene di finestre, pendenti, immagini che sembrano uscite dal pennello di un pittore fiammingo. E gli spacciatori? Appoggiati coi loro gomiti alle balaustre dei ponti sospesi nel vuoto, metafora perfetta di chi ha scelto quella vita. Distogliete lo sguardo dai neon, per ritrovarli sbiaditi coi loro giochi di luce, distorti e rifratti, nell’acqua dei canali sotto di voi. Percorrete quelle vie strettissime, e lasciate che si aprano di colpo su di una piazza con al centro una chiesa. Sacro e profano che si intrecciano e si impongono nelle loro differenze diventando valori assoluti. 
Amsterdam, o almeno una parte di lei, è tutto questo, e altro ancora.
Ma andiamo avanti, ritorniamo a quella sera.
Passeggiando per quelle vie la presenza femminile della collega inizia a farsi un po’ ingombrante, ed è un peccato, perché il capo, da alticcio, sembra decisamente più arzillo del previsto, e ho l’impressione che la serata potrebbe svoltare.
L’assist, grazie a Dio, arriva direttamente da lei (scusate se non vi ho ancora detto il suo nome, ma semplicemente non ha nessuna importanza nella storia. Se per questo non ho detto nemmeno quello del capo, né del mio amico, né, soprattutto, il mio. Bè, ormai è tardi. Nel senso: ormai è come quando conosci una persona ma non vi siete scambiate il nome, e adesso è passato troppo tempo per chiederlo, sarebbe una cosa imbarazzante. Merda mi sto di nuovo perdendo in discorsi inutili. Chiusa parentesi). Dicevo, l’assist ce lo da lei, la mia collega, che ad un certo punto ci chiede di portarla in hotel perché ha freddo, ha bevuto un po’ troppo e vuole dormire. Io credo che avesse capito che fosse il momento di sguinzagliare gli uomini e togliersi di mezzo. In ogni caso, noi abbiamo davvero gradito. La accompagniamo dunque in hotel e decidiamo di svignarcela ancora, rituffandoci nelle vie del centro, in cerca di qualche locale. Inutile dirlo, casualmente ci ritroviamo nella zona rossa.
    Secondo bisogno.
«Se te la offrissi io, la prestazione, da quale andresti?» mi chiede lui a un certo punto.
Io ho la commozione negli occhi che neanche San Francesco che vede un cucciolo di panda morire affogato nelle lacrime di sua madre. Ok scusate, questa volta sono andato troppo avanti con la similitudine, mea culpa. (E comunque la madre va bene sia del panda che di San Francesco, fate voi.)
«Non saprei, non ci sono mai andato» faccio io, ed era vero, «di sicuro una bionda».
«Quella va bene?». Urca se andava bene.
Fino a quel punto io credevo stesse semplicemente facendo conversazione, ma eccolo che parte per la tangente e bussa alla vetrina di questa biondona da 1 e 90, iniziando a contrattare in inglese. Le parole che dice, adesso sono le più cliccate sui motori di ricerca di tutto il mondo, nei primi Anni Zero invece erano una cosa di nicchia, da gente che ne sapeva. Io sono lì dietro di lui che osservo la scena senza capire una parola, con gli occhi sbarrati sul seno della simpatica ragazza. Dopo una lunga trattativa, il capo mi batte sulla spalla e mi da 50 euro in mano, il tutto davanti a lei. 
«Per te, ho rimediato il servizio completo, per me, il premio miglior datore di lavoro dell’anno». E si allontana. 
La ragazza guarda basita lo scambio di soldi e quell’uomo andarsene, poi guarda me.
«Oh, what a father!» mi dice stupita, e poi mi prende per mano e mi accompagna su per le scale.
Tralascio il successivo quarto d’ora della mia vita, è poca cosa. 
Uscito nuovamente in strada mi ritrovo a cercare il capo, che è sparito dalla circolazione. Cinque minuti dopo lo vedo sgattaiolare fuori da una vetrina non lontano dalla mia, accompagnato alla porta da una donnona matura un po’ larga di fianchi e con un neo enorme sulla guancia. Oh, i gusti son gusti.
    Terzo bisogno.
Coffee shop, l’idea è la mia e quindi questa volta offro io. È lì, seduti a un tavolo, che lui mi dice persino di smetterla di dargli del Lei. In effetti stava diventando un po’ bizzarro, dopo l’essere andati a zoccole e a drogarci come due amiconi. Che poi parliamone, se farsi di cannabis è considerato drogarsi, allora prendere in braccio tua figlia dovrebbe essere considerato pedofilia. No ragazzi, non scherziamo dai. Un po’ di oggettività *****. Va bè, su questa parte della serata non saprei che altro dire, se non che usciamo dopo mezzora un po’ più rilassati, con gli occhi rossi e Bob Marley nelle orecchie. 
È mezzanotte passata ormai, e stiamo vagando in zona vetrine per un’ultima occhiata prima di ritornare in hotel. Ad un certo punto il boss si ferma, proprio davanti ad un insegna rossa. Casinò. 
   Quarto bisogno. Un bisogno che fino a quella sera non sapevo nemmeno di avere.
«Sai giocare a Poker?» mi chiede lui.
«Qualcosina» dico io, «ma non ricordo mai le regole. Preferisco la briscola». 
«Io una partitina me la farei, dai mezzora e ce ne andiamo. Che ne dici?»
È strana la vita. Mi chiedo ancora cosa sarebbe successo se avessi risposto diversamente. È che certe volte ci si ritrova a imboccare un bivio senza nemmeno rendersene conto. 
«Tu gioca, io guardo soltanto» concludo.
Entriamo, il Casinò è semivuoto. Un uomo in giacca e papillon lo fa sedere ad un tavolo in una sala con il soffitto bassissimo. Io mi piazzo dietro di lui a qualche metro di distanza, come un bodyguard.
Per giocare servono almeno 100 euro, li tira fuori dalle tasche e gli danno le fiches. È la prima volta che le vedo dal vivo, fino ad allora per me erano una cosa vista soltanto nei film. La ragazza che fa le carte, se fosse in vetrina, avrebbe la fila che arriva fino a Utrecht. 
Mi ricordo che la cosa che mi colpisce è che ne serve due a testa. Adesso chiunque conosce il Texas Holdem, ma all’epoca vi assicuro che era pressoché sconosciuto alla gente fuori da quel mondo lì. O almeno, io il poker lo avevo sempre e solo giocato a cinque, ad esempio. A due carte non avrei nemmeno saputo da che parte girarle. 
Guardo un paio di giri di bui, poi mi annoio, anche perché il capo non ne gioca nemmeno una, così mi fiondo alla roulette. Punto metà dei miei soldi sul rosso, me lo ricordo perché ho preso la mia scelta ripensando alle mutande della bionda. Vinco, e decido che la mia serata finisce qui.
Cambio le fiches vinte alla cassa vicino all’uscita e mi piazzo ad aspettare appoggiato alla ringhiera del canale, proprio come uno spacciatore. Metto la mano nella tasca del giubbotto, scanso una fiches da 5 euro che ho tenuto come porta fortuna, e ne tiro fuori una canna già rollata che ho comprato poco prima. Appena trovo qualcuno per accendere, il capo esce dal casinò e mi viene incontro.
«Le nostre amichette le ha offerte la dea bendata» mi fa, appena mi raggiunge.
«Vinto qualcosa?»
«Raddoppiato»
«Wow. Devi insegnarmi a giocare, con due carte non sono buono».
«Devo ancora capire in cosa sei buono tu». Gli piace un sacco prendermi in giro.
Forse, vi aspettavate che fosse successo qualcosa di più nelle mura di quel casinò, ma la verità è questa: quella sera non è successo un bel nulla. 
All’inferno ci si arriva dopo una vita intera, non vi ci catapultano in un’istante.
Se mi chiedete dov’è che tutto è iniziato però, non posso che dirvi che la mia mente va sempre lì, a ripensare a quella sera. 
In ogni caso, come dico sempre, ogni cosa a suo tempo.
Quello che succede, poi, è che torniamo in hotel come due vecchi amici, camminando da soli nella notte di Amsterdam, finendo l’ultima canna proprio davanti al portone d’ingresso di quel posto di lusso, per poi, finalmente, risalire in camera.
   Quinto bisogno. 
Buonanotte.

mercoledì 21 ottobre 2015

Capitolo 3

Immagino che ormai tutti lo abbiate colto, ma in ogni caso adesso è giunto il momento di sciogliere eventuali dubbi. Mi scuso a priori, che tanto fa sempre bene, per questa digressione.
Questi fatti, e buona parte di quelli che mi accingo a raccontare, si sono svolti nei primi anni 2000. Alla storia, se si può usare questa espressione per parlare di un periodo che è praticamente ieri, sarebbero passati come gli Anni Zero.
Io sarò un idiota, ma credo che nei primi anni di un secolo si possano sempre scorgere degli indizi riguardo a quello che succederà nei successivi cento anni. Se non accettate questa tesi, almeno lasciatemi passare il fatto che sono sempre anni in cui c’è un’aria nuova. Forse è qualcosa di psicologico: è il vedere quelle cifre così basse nei calendari sotto i nostri occhi, come se si ripartisse da capo, come se tutti gli sbagli commessi dalle generazioni precedenti fossero perdonati per sempre. 01, 02, 03, 04 e così via. È l’inizio di tutto, non lo vedete? 
Noi vissuti negli Anni Zero siamo stati i depositari di questo immenso dono: il dono della pagina bianca. La possibilità di poter scrivere da capo il nostro futuro. Forse è un pensiero stupido, lo so, ma è quello che credo. 
Non devo certo essere io a ricordarvi come abbiamo scelto di iniziare questa storia, cosa ne abbiamo fatto di questa pagina bianca.
Appena arrivati al conto dell’ 1 ci siamo schiantati con i nostri aerei contro le Torri, per poi professare guerre senza motivo, sublimando le nostre paure dentro a volti scuri e barbuti visti in televisione. Abbiamo ignorato i genocidi dell’Africa e le guerre di pace, creando mostri che prima o poi presenteranno il conto, e forse lo stanno già facendo. 
Dopo quella falsa partenza potevamo raddrizzare la rotta, ritornare in carreggiata. E noi? Noi abbiamo fatto tutt'altro. Senza neanche arrivare al 10 abbiamo creato la più grande ed eterogenea crisi economica mai vista nella modernità. Anche in questo caso le vere conseguenze le pagheremo soltanto in futuro. Perché le conseguenze di una crisi di questo livello, quelle vere, non sono economiche. E non è una mia previsione: in queste casi la storia ha valore di scienza tanto quanto la matematica.
Lo so che il “Noi” è un po’ scomodo da leggere. Lo so che Noi non vogliamo centrare nulla con tutto questo, ma qualcuno dovrà pur prendersele queste colpe. Le cose non avvengono sempre e solo per caso: tutto, tranne il caso stesso, ha una sua causa. Non sto dicendo che la colpa è stata nostra, sto solo dicendo che ce la daranno.
Lo stanno già facendo, ci stanno già additando come colpevoli, ed è per questo che mi piace ricordare che Noi siamo stati anche altro. 
Già, perché se ripercorro mentalmente quegli anni, mi accorgo che un po’, dopotutto, forse l’occasione della pagina bianca l’abbiamo colta. Abbiamo creato il boom di internet e dei telefonini, costruito macchine sempre più grosse e schermi sempre più sottili. Noi, e i nostri Anni Zero. Gli anni delle figlie che sposano persone di culture lontane, gli anni della moneta unica, gli anni in cui la scienza ha fatto passi da gigante, giorno dopo giorno, senza nemmeno accorgersene. Quelli dell’Europa senza barriere, delle Tv a pagamento, degli studenti Erasmus e dei voli sempre meno cari.
Insomma, sono stati gli anni in cui tutto si è unito, e il mondo, da immenso che era, è diventato poco più che una piccola, buffa, pallina in volo. 
Metteteci anche questo sulle Nostre tombe, quando verrà il momento.

Capitolo 2

Quello che ancora non avevo capito, della mia azienda, era quanto facesse le cose in grande. Per dirvi, appena atterrati ad Amsterdam un’autista ci accoglie con il suo bel foglietto scritto a mano, per poi accompagnarci al suo Mercedes nero. L’hotel in cui ci scarica, poco lontano dal centro città, è uno di quelli che quando entri ti pare d’essere in un museo. Cinque stelle con tanto di fontanone all’entrata. Tre camere per una notte, in uno di quegli hotel, ti costano stipendi interi. Che poi le camere non sono state nemmeno tre, perché per un errore di prenotazione, invece di tre singole, ci danno una singola e una matrimoniale. Ça va sans dire, il tentativo di dormire con la collega l’ho fatto, anche perché non era mica male, anzi. Il suo problema era il fatto che fosse fidanzatissima, una di quelle che ti alza barriere architettoniche appena le fai una battutina.
Il mio capo (o meglio ex-capo, a quanto pareva) per galanteria e un po’ di pudore lascia dormire lei nella singola, e a me, dunque, tocca la camerata maschile. Mi offro di andare a cercare un altro hotel nelle vicinanze, più che altro per rispettare il divario gerarchico tra me e lui, ma inaspettatamente si dimostra più alla mano di quanto possa sembrare. Ecco, a proposito di lui, direi che è giunto il momento di descriverlo un po’, più che altro perché, nonostante tutto, ha un ruolo importante nella mia vicenda. Il nome per ora non lo dico, lo dirò più avanti, se me ne viene voglia, ma non vi posso garantire che sarà quello vero, dato come sono finite le cose.
Lui: occhi di ghiaccio, la erre come la pronunciano i ricchi, più verso i 50 che i 40, magro, ma di quella magrezza che, non so perché, pensi sempre che se ci fai a pugni le prendi sicuro. Alto, senza neanche un pelo in testa, vestiti così firmati che nemmeno il block notes di un collezionista di autografi. Insomma io, con uno così, non avevo proprio un bel nulla in comune. Va bene, scusate per la descrizione, era solo per farvelo inquadrare un po’. Procediamo. 
Dopo una doccia veloce, risaliamo sulla Mercedes e ci dirigiamo dal cliente a Uthrect (sempre che si scriva così), che dista mezz’oretta di macchina da Amsterdam.
Il clima è teso, il mio capo non dice una parola, l’altra ragazza mi rompe le ***** per tutto il viaggio ripetendomi la lezione, come se fosse una scolaretta la mattina dell’interrogazione. Arrivati a Uthrecht (lo scrivo in modo diverso, così almeno una volta ci prendo), la attraversiamo, poi proseguiamo per altri dieci minuti fino a ritrovarci in un'area industriale. Oggi se non sbaglio è stata inglobata dalla città, ma allora era una zona semiabbandonata in cui, rispetto a tutto il resto, la nostra Mercedes sembrava una macchina venuta dal futuro. 
A un certo punto l’autista ferma l'astronave; io e la collega ci guardiamo negli occhi con espressione incredula. Siamo arrivati? Qui? Insomma, tutto ci aspettavamo, tranne che l’incontro si tenesse in un posto del genere. Ci eravamo fatti due ore di volo e quaranta minuti di Mercedes-da-ricchi-sfondati, tutti infighettati nei nostri vestiti migliori, per arrivare ad un casolare a un piano, ingrigito e mezzo diroccato, in un posto sperduto nella più marcia delle periferie? E noi che ci eravamo prefigurati villoni megagalattici, uffici all’ultimo piano di grattacieli di vetro, fanfare e trombe ad accogliere il nostro trionfante ingresso in Uhtrec (scrivere Utrect mi pareva brutto).
Il capo, come se fosse la cosa più normale del mondo, scende dalla macchina e va dritto verso la porta in ferro. Fuori, stranamente, non c’è la maniglia, e nemmeno un campanello. Una telecamera ci osserva, e io ho come l'impressione che qualcosa non vada, senza bene sapere il perché. 
Dopo qualche istante la porta si apre e un giapponesino di neanche quindici anni si palesa per invitarci all’interno. Appena entrati, senza dire nulla, si fionda all’esterno e ci chiude dentro. Un altro asiatico, questa volta però bello anzianotto, ci accompagna al piano di sotto, giù per una scala strettissima, il tutto senza dire una singola parola. Comprenderete come io a questo punto mi sentissi dentro a un film di Quentin Tarantino, e fossi certo che dietro la porta in fondo alla scala avrei trovato nientepopòdimeno che la Yakuza al completo, con tanto di katane in mano e geishe come fermacarte. Ecco, niente di tutto questo. Quando il vecchio apre la porta vedo qualcosa che, se possibile, mi stupisce ancora di più delle mie previsioni pulp: uno stanzone infinito, così grosso che l’Inter sarebbe tranquillamente capace di perderci una partita regolamentare. Là dentro, praticamente intrappolati sotto un soffitto bassissimo, decine di donne e uomini asiatici in piedi davanti a dei macchinari grigi. Già, macchinari. Io inizio ad afferrare: quei macchinari, ognuno di quei modelli, noi li abbiamo nei nostri fascicoli. Ecco perché siamo lì.
Attraversiamo la stanza guidati dal giapponese anzianotto, passando in mezzo a tutta quella gente che si inchina e fa riverenze al nostro passaggio. Raggiungiamo dall’altra parte un ufficio con vetrata che dà sullo stanzone. Dentro c’è una scrivania completamente vuota, il caro vecchietto jappo si siede da un lato, il nostro capo si siede nell’unica sedia dal lato ospiti. Io e la mia collega, uno alla sua destra, uno alla sua sinistra, stiamo in piedi, come due angeli custodi. 
Mr. Sushi, che fino a questo punto non ci ha mai guardati in faccia e non ha mai detto una parola, di colpo apre le braccia e ci mostra un sorriso che è l’incubo notturno di ogni dentista. «Welcome to Holland». Benvenuti in Olanda.
A quel tempo, ripeto, ero una totale capra in inglese, e ciò mi impedì di capire i punti chiave della conversazione. Quello che ricordo distintamente è che a parlare è il mio capo, come se sia lui a dettare le regole, mentre l’altro annuisce e incassa. Ebbravo il boss, guardalo come tiene testa al Samurai. 
Ogni tanto, il vecchietto di Tekken guarda me e la mia collega, squadrandoci dal basso in alto. Dopo pochi minuti, i due si stringono la mano. Ritorniamo nello stanzone, ne segue un altro giro trionfale di inchini e riverenze, e poco dopo siamo di nuovo con le chiappe sulla nostra bella Mercedes in movimento.
Il capo, la prima cosa che fa è una chiamata in francese, così, giusto perché non sono già abbastanza confuso dalle lingue. Quando mette giù è l’uomo più felice del mondo.
«Ma tu ci hai capito qualcosa?» chiedo alla mia collega sottovoce.
«Gli abbiamo venduto quasi mezzo milione in macchinari quasi nuovi, e in più ritiriamo i loro usati funzionanti» dice lei. 
«Che rigireremo a Marsiglia per altri centomila euro» si intromette il capo, dal sedile davanti, «È l’operazione più grande che abbiamo mai fatto». 
E immagino che sia tutto molto legale, soprattutto. 
«Ma noi…oggi… a che le servivamo?» chiedo con sincera curiosità.
«A me proprio a niente.» mi risponde lui, «Servivate al cliente, doveva vedervi».
«Vederci per cosa?»
«Va bene, l’inglese non è il tuo forte, ma da uno come te mi aspettavo un po’ di perspicacia», e poi ride, godendo dal fatto che non ci ho ancora capito nulla, «Peccato che per licenziarti dovrò aspettare ancora un paio di mesi». 
Ecco, a questo punto, gentilmente, con molta pacatezza, avrei voluto prendergli quella palla da bowling che si ritrova al posto della testa e sbatterla violentemente contro il cruscotto, lui e quel suo dannato sorrisetto.
«Dobbiamo ritornare?» chiedo.
«Entrambi voi due piccioncini, in una romantica gita in solitaria nel paese dei tulipani. Insegnerete a usare alla perfezione i tre diversi modelli che abbiamo appena venduto».
Oh merda.
«In inglese, giustamente» dico io.
«Se preferisci va bene anche il cinese» fa lui.
...Cinesi! Dio me li confondo sempre.
«Abbiamo fatto il botto ragazzi, stasera si festeggia» continua il capo, iniziando a leggere dalla sua guida verde i nomi di ristoranti e locali del centro di Amsterdam.
Io, dal canto mio, avrei mille domande da porgli, ma semplicemente lascio svanire i dubbi e me ne torno a guardare la città di Utrecht (
) scorrere rapida, oscurata dal vetro del mio finestrino.
Il giorno dopo l'aereo ci avrebbe riportati a Milano. Davanti a noi, però, ancora quella sera, ancora quella notte. Ad Amsterdam.

mercoledì 14 ottobre 2015

Capitolo 1

Sono nato e cresciuto in un paesino di 158 abitanti. O questo almeno è quello che dice la pagina di Wikipedia. La pagina del paesino, intendo, la mia ancora non l’ha creata nessuno.
L’ospedale più vicino dista ventuno chilometri, il cimitero più vicino diciotto -li scrivo a lettere, per rendere meglio l’idea. Il succo è che non si può neanche morire in un paese così. Ti devi spostare pure per quello.
Tutta quella parte di vita ve la risparmio più che volentieri, diciamo che non fa curriculum. Semplicemente è arrivato un giorno in cui mi sono detto che era meglio andare a vivere in un qualsiasi altro posto. Quantomeno in uno dove si potesse almeno morire senza preoccupazioni. 
Ho scelto Milano, ma è stato un caso. Avrebbe potuto essere qualsiasi altra città. Anzi, forse, ripensandoci, la scelta è ricaduta su Milano perché quando te ne vai da un paese di 158 abitanti vuoi farlo alla grande, al diavolo le mezze misure. Il bello di Milano è che è una città internazionale, il bello è che prendi un aereo e nel giro di mezza giornata sei dovunque tu voglia. Chiunque tu voglia.
Avevo 19 anni allora. Per un po’ ho vissuto arrangiandomi, cambiando praticamente un lavoro a settimana. Se vi chiedete come fosse possibile, anche se non è passato molto, va detto che erano altri tempi. Ho fatto il pizzaiolo, il cameriere, il garzone di un idraulico depravato, il parcheggiatore abusivo, l’omino in bundle con il camion traslochi, e ancora tanti, tanti altri, perfino il postino, per dirne uno un po’ più istituzionale.
Vivevo in sub-affitto in un trilocale all’ottavo piano. Per i primi tempi il mio coinquilino era un tossico che stava con una biondina moldava da urlo. Non andavamo molto d’accordo, o almeno questa era la mia impressione. Poi una mattina mi sveglio: il tossico è sdraiato per terra in cucina, con la testa nel frigorifero. Si è calato qualcosa di troppo deve aver provato a far scendere la temperatura corporea buttandosi in mezzo a lattine di birra e prosciutti. Credevo che fosse morto, la prima cosa che ho fatto è stata chiamare a casa la moldava. Lei mi diceva di non chiamare nessuno, di stare calmo, che stava arrivando. Mi ricordo che nel frattempo ho fatto colazione a pochi passi da quel corpo, mi ricordo anche di aver pensato di scappare, ma non l’ho fatto. Poi la moldava arriva e si mette a urlare, alla faccia dello stare calmi. Ci ho messo un’ora per convincerla a chiamare l’ambulanza. 
Ora cinque notizie: due sono belle, due brutte. Una è bellissima. 
La prima bella notizia è che mi ero sbagliato: il tossico era ancora vivo. La brutta notizia è che abbiamo pagato una bolletta per il frigo da urlo, e abbiamo dovuto buttare il prosciutto. L’altra bella notizia è che lui è stato per due settimane in ospedale. Perché è bella? Perché la bellissima notizia è che la moldava è rimasta da me tutti quei giorni, e vi lascio intuire. Manca solo l’ultima, brutta, terribile notizia. Tenetevi forti: il tossico non solo è ancora vivo, adesso è  un avvocato civilista di successo. Insomma, quel giorno, a conti fatti, poteva andargli meglio.
La moldava ho continuato a frequentarla di nascosto per un po’ di settimane, poi un giorno è semplicemente sparita dalla circolazione. Non so che fine abbia fatto.
Qualche mese dopo sono stato cacciato da quello schifo di casa, e non biasimo certo chi prese quella scelta: avevo quasi un anno di rate non pagate, e una pessima, ma proprio pessima, considerazione da parte dei miei vicini.
Nei mesi successivi ho cambiato un po’ di posti in cui ho vissuto, nel periodo peggiore ho persino dovuto dormire per strada alcune notti d’inverno.
Un’altra cosa carina da raccontare è di quella volta, quell’estate, in cui ho vissuto nella casa del nonno della mia ragazza senza che né lei né il nonnetto lo sapessero. Uno spasso, davvero.
Lo so, vi sentite un po’ confusi. Sto riassumendo il tutto a grandi spanne. Il fatto è che non sono uno scrittore, non mi va di raccontandovi per filo e per segno tutta la mia storia sin dalla culla.
Anzi, facciamo così: adesso io e voi facciamo un patto. Voi mi promettete di non saltare queste righe, e io vi prometto che con me non avrete bisogno di saltarne mai più.
Allora, la verità è che io quando guardo i film mi rompo le palle. Nei film, se ci fate caso, anche in quelli dove viene giù il mondo, nella prima mezzora non succede mai niente. L’unica cosa che fanno per quei lunghi trenta minuti è introdurvi i personaggi. E anche nei libri, stessa cosa: le prime cento pagine sono sempre una noia mortale. Vi descrivono i capelli di lei, gli occhi di lui, il tavolo della cucina, il sorriso della zia, il colore della nuvola a forma di mucca o che ne so io. Dio quanto le odio queste cose.
Il problema, il problema vero, è che non si sa mai a che punto del film inizia la parte bella, non si sa mai a che pagina il libro comincia ad ingranare, e quindi a noi poveri stronzi tocca sempre sorbirci tutto dall’inizio.
Ecco, a me di introdurre il personaggio non me ne frega proprio un bel nulla.
Vi chiedo di fidarvi del fatto che io non sia un narratore totalmente incapace e pressapochista, io, in cambio di ciò, vi evito tutta la parte inutile, Sì, è vero, ci perdete un po’ di immedesimazione forse, ma almeno ci lasciamo alle spalle i tavoli della cucina, i sorrisi della zia e le nuvole a forma di mucca. Anche perché diciamocelo, quando si saltano le pagine di un libro, dentro di noi, un po’ ci sentiamo sempre delle merde.
Ok, se il patto è stato accettato, d’ora in avanti si fa sul serio. Ho finito con i preamboli, spero non vi siate già tagliati le vene.

Andiamo ai fatti.


La prima vera svolta della mia vita l’ho avuta a 21 anni. Un giorno un mio amico legge un annuncio di lavoro per venditori su di un giornaletto, e mi chiede di accompagnarlo. L’indomani ci presentiamo al colloquio. Siamo in otto per tre posti, io l’unico senza la cravatta. Mi ricordo che per darci un tono ci eravamo scolati alcune bottiglie di birra, alle otto di mattina. A un certo punto, giuro, durante il colloquio di gruppo il mio amico è corso in bagno a vomitare. Che ci crediate o no, ci hanno presi entrambi.
Per i primi due mesi mi ricordo che non facevo niente da mattina a sera. 
Eravamo in quattro, tutti giovanissimi, in uno stanzino minuscolo, ognuno con la sua scrivania. Il nostro compito era leggere dei fascicoli infiniti. Ci provai per qualche giorno, poi, dato che nessuno ci controllava, lasciai perdere.
Me ne stavo al computer tutto il giorno a giocare a flipper e a campo minato. A proposito: credo di detenere tuttora il record mondiale, davvero: sono sicuro che un giorno arriverà qualcuno a darmi la targhetta. 
Per quello che ne sapevo io, la nostra azienda vendeva cose. Non avevo ancora bene chiaro cosa, e soprattutto a chi, ma intuivo che le vendite andassero bene se si potevano permettere pesi morti come il sottoscritto.
Ah, mi sono dimenticato. Ovviamente il mio curriculum vitae era falso come una banconota da trenta. Non ho millantato lauree, per carità, ma avevo scritto di aver svolto attività di ufficio –mai fatta- e soprattutto di conoscere l’inglese fluentemente. Non sono passati poi così tanti anni, ma non era ancora l’era del porno in streaming: l’inglese tra i giovani, vi assicuro, non lo sapeva praticamente nessuno. Ma neanche in Inghilterra eh.
Tutto bene comunque, fino a quando un bel giorno entra nel nostro stanzino una signora rosso fuoco sulla cinquantina. E indovinate un po’? Inizia a parlare in inglese. Inizia e non la smette più. Mi ricordo di aver passato un quarto d’ora a dire «Yes» e annuire ritmicamente come uno di quei pupazzetti di plastica da scrivania. Quando la donna se ne esce, la nostra collega ci guarda e ci fa: “Avete capito?”. Nemmeno una parola. “Due di noi devono andare in Olanda la settimana prossima. C’è da incontrare un cliente”. Panico.
Il mio amico, che comunque un po’ di inglese lo sapeva, il giorno dopo si è dato malato, per poi licenziarsi nei mesi successivi. L’altro ragazzo nello stanzino diede buca non mi ricordo più per quale motivo. Io non avevo il coraggio di fare una vigliaccata simile, anche se ci sono stato molto vicino. Forse, semplicemente, non ero abbastanza sveglio per capire che era il caso di mollare.
Ho passato una settimana a leggermi il dizionario italiano-inglese/inglese-italiano e a studiare fascicoli su fascicoli. La notte prima della partenza l’ho passata insonne. Me ne stavo lì, a fissare la valigia pronta, ad escogitare uno stratagemma per salvarmi. Niente di niente.
La mattina dopo mi ritrovai in aeroporto, assieme alla mia collega e al nostro capo, con in mano un biglietto per Amsterdam, in procinto di vendere componentistica di non so bene cosa, a non so bene chi.
Subito dopo il decollo, mentre guardavo l’aereo entrare nelle nuvole, forse per quella sensazione di essere in Paradiso, mi sentii costretto a confessare tutto al mio capo; dopotutto non volevo far fare figuracce a lui e alla sua azienda. Lui fu molto comprensivo.
«Sei licenziato». Ok. 
«Cerca di fare meno danni possibili». Ok.
Amsterdam, stavo arrivando.

martedì 13 ottobre 2015

Post 0: Che cos'è "Ogni mercoledì"

Benvenuti a tutti. Non mi presento, perché a farlo sarà questa storia.
Questo che avete sotto gli occhi è un blog-narrativo-autobiografico, o almeno questa è l’idea.
Mi spiego peggio: la mia intenzione è creare, post dopo post, un racconto autobiografico sulle mie vicissitudini. 
Voglio precisare che il tutto sarà sì “romanzato” (quindi non prendete alla lettera ogni singola parola: spesso andrò a cambiare/omettere nomi e luoghi, o altre volte scriverò in prime persona cose in realtà accadute a conoscenti) ma un buon 50% di quello che leggerete sono cose realmente avvenute, e quasi sempre al sottoscritto.
Se tutto va come previsto si formerà un racconto ad episodi, molto simile ad una serie-tv, che spero vi faccia divertire e vi intrattenga passo dopo passo nella sua lettura.
Da parte mia, garantisco una produzione di almeno un post settimanale, che porterà avanti la storyline e sarà pubblicato ogni mercoledì.
Sarò sempre lieto di rispondere ai vostri commenti e, se avete domande da pormi, non esitate a farle. 

Come ho annunciato, mi sono spiegato peggio, ma vi assicuro che il tutto sarà molto fruibile sin dal primo impatto.

Non mi resta che darvi appuntamento al primo post, che sarà chiamato, pensa un po' che botta di fantasia, Capitolo 1.
Bene, credo di aver detto tutto. 

Buon viaggio.