mercoledì 14 ottobre 2015

Capitolo 1

Sono nato e cresciuto in un paesino di 158 abitanti. O questo almeno è quello che dice la pagina di Wikipedia. La pagina del paesino, intendo, la mia ancora non l’ha creata nessuno.
L’ospedale più vicino dista ventuno chilometri, il cimitero più vicino diciotto -li scrivo a lettere, per rendere meglio l’idea. Il succo è che non si può neanche morire in un paese così. Ti devi spostare pure per quello.
Tutta quella parte di vita ve la risparmio più che volentieri, diciamo che non fa curriculum. Semplicemente è arrivato un giorno in cui mi sono detto che era meglio andare a vivere in un qualsiasi altro posto. Quantomeno in uno dove si potesse almeno morire senza preoccupazioni. 
Ho scelto Milano, ma è stato un caso. Avrebbe potuto essere qualsiasi altra città. Anzi, forse, ripensandoci, la scelta è ricaduta su Milano perché quando te ne vai da un paese di 158 abitanti vuoi farlo alla grande, al diavolo le mezze misure. Il bello di Milano è che è una città internazionale, il bello è che prendi un aereo e nel giro di mezza giornata sei dovunque tu voglia. Chiunque tu voglia.
Avevo 19 anni allora. Per un po’ ho vissuto arrangiandomi, cambiando praticamente un lavoro a settimana. Se vi chiedete come fosse possibile, anche se non è passato molto, va detto che erano altri tempi. Ho fatto il pizzaiolo, il cameriere, il garzone di un idraulico depravato, il parcheggiatore abusivo, l’omino in bundle con il camion traslochi, e ancora tanti, tanti altri, perfino il postino, per dirne uno un po’ più istituzionale.
Vivevo in sub-affitto in un trilocale all’ottavo piano. Per i primi tempi il mio coinquilino era un tossico che stava con una biondina moldava da urlo. Non andavamo molto d’accordo, o almeno questa era la mia impressione. Poi una mattina mi sveglio: il tossico è sdraiato per terra in cucina, con la testa nel frigorifero. Si è calato qualcosa di troppo deve aver provato a far scendere la temperatura corporea buttandosi in mezzo a lattine di birra e prosciutti. Credevo che fosse morto, la prima cosa che ho fatto è stata chiamare a casa la moldava. Lei mi diceva di non chiamare nessuno, di stare calmo, che stava arrivando. Mi ricordo che nel frattempo ho fatto colazione a pochi passi da quel corpo, mi ricordo anche di aver pensato di scappare, ma non l’ho fatto. Poi la moldava arriva e si mette a urlare, alla faccia dello stare calmi. Ci ho messo un’ora per convincerla a chiamare l’ambulanza. 
Ora cinque notizie: due sono belle, due brutte. Una è bellissima. 
La prima bella notizia è che mi ero sbagliato: il tossico era ancora vivo. La brutta notizia è che abbiamo pagato una bolletta per il frigo da urlo, e abbiamo dovuto buttare il prosciutto. L’altra bella notizia è che lui è stato per due settimane in ospedale. Perché è bella? Perché la bellissima notizia è che la moldava è rimasta da me tutti quei giorni, e vi lascio intuire. Manca solo l’ultima, brutta, terribile notizia. Tenetevi forti: il tossico non solo è ancora vivo, adesso è  un avvocato civilista di successo. Insomma, quel giorno, a conti fatti, poteva andargli meglio.
La moldava ho continuato a frequentarla di nascosto per un po’ di settimane, poi un giorno è semplicemente sparita dalla circolazione. Non so che fine abbia fatto.
Qualche mese dopo sono stato cacciato da quello schifo di casa, e non biasimo certo chi prese quella scelta: avevo quasi un anno di rate non pagate, e una pessima, ma proprio pessima, considerazione da parte dei miei vicini.
Nei mesi successivi ho cambiato un po’ di posti in cui ho vissuto, nel periodo peggiore ho persino dovuto dormire per strada alcune notti d’inverno.
Un’altra cosa carina da raccontare è di quella volta, quell’estate, in cui ho vissuto nella casa del nonno della mia ragazza senza che né lei né il nonnetto lo sapessero. Uno spasso, davvero.
Lo so, vi sentite un po’ confusi. Sto riassumendo il tutto a grandi spanne. Il fatto è che non sono uno scrittore, non mi va di raccontandovi per filo e per segno tutta la mia storia sin dalla culla.
Anzi, facciamo così: adesso io e voi facciamo un patto. Voi mi promettete di non saltare queste righe, e io vi prometto che con me non avrete bisogno di saltarne mai più.
Allora, la verità è che io quando guardo i film mi rompo le palle. Nei film, se ci fate caso, anche in quelli dove viene giù il mondo, nella prima mezzora non succede mai niente. L’unica cosa che fanno per quei lunghi trenta minuti è introdurvi i personaggi. E anche nei libri, stessa cosa: le prime cento pagine sono sempre una noia mortale. Vi descrivono i capelli di lei, gli occhi di lui, il tavolo della cucina, il sorriso della zia, il colore della nuvola a forma di mucca o che ne so io. Dio quanto le odio queste cose.
Il problema, il problema vero, è che non si sa mai a che punto del film inizia la parte bella, non si sa mai a che pagina il libro comincia ad ingranare, e quindi a noi poveri stronzi tocca sempre sorbirci tutto dall’inizio.
Ecco, a me di introdurre il personaggio non me ne frega proprio un bel nulla.
Vi chiedo di fidarvi del fatto che io non sia un narratore totalmente incapace e pressapochista, io, in cambio di ciò, vi evito tutta la parte inutile, Sì, è vero, ci perdete un po’ di immedesimazione forse, ma almeno ci lasciamo alle spalle i tavoli della cucina, i sorrisi della zia e le nuvole a forma di mucca. Anche perché diciamocelo, quando si saltano le pagine di un libro, dentro di noi, un po’ ci sentiamo sempre delle merde.
Ok, se il patto è stato accettato, d’ora in avanti si fa sul serio. Ho finito con i preamboli, spero non vi siate già tagliati le vene.

Andiamo ai fatti.


La prima vera svolta della mia vita l’ho avuta a 21 anni. Un giorno un mio amico legge un annuncio di lavoro per venditori su di un giornaletto, e mi chiede di accompagnarlo. L’indomani ci presentiamo al colloquio. Siamo in otto per tre posti, io l’unico senza la cravatta. Mi ricordo che per darci un tono ci eravamo scolati alcune bottiglie di birra, alle otto di mattina. A un certo punto, giuro, durante il colloquio di gruppo il mio amico è corso in bagno a vomitare. Che ci crediate o no, ci hanno presi entrambi.
Per i primi due mesi mi ricordo che non facevo niente da mattina a sera. 
Eravamo in quattro, tutti giovanissimi, in uno stanzino minuscolo, ognuno con la sua scrivania. Il nostro compito era leggere dei fascicoli infiniti. Ci provai per qualche giorno, poi, dato che nessuno ci controllava, lasciai perdere.
Me ne stavo al computer tutto il giorno a giocare a flipper e a campo minato. A proposito: credo di detenere tuttora il record mondiale, davvero: sono sicuro che un giorno arriverà qualcuno a darmi la targhetta. 
Per quello che ne sapevo io, la nostra azienda vendeva cose. Non avevo ancora bene chiaro cosa, e soprattutto a chi, ma intuivo che le vendite andassero bene se si potevano permettere pesi morti come il sottoscritto.
Ah, mi sono dimenticato. Ovviamente il mio curriculum vitae era falso come una banconota da trenta. Non ho millantato lauree, per carità, ma avevo scritto di aver svolto attività di ufficio –mai fatta- e soprattutto di conoscere l’inglese fluentemente. Non sono passati poi così tanti anni, ma non era ancora l’era del porno in streaming: l’inglese tra i giovani, vi assicuro, non lo sapeva praticamente nessuno. Ma neanche in Inghilterra eh.
Tutto bene comunque, fino a quando un bel giorno entra nel nostro stanzino una signora rosso fuoco sulla cinquantina. E indovinate un po’? Inizia a parlare in inglese. Inizia e non la smette più. Mi ricordo di aver passato un quarto d’ora a dire «Yes» e annuire ritmicamente come uno di quei pupazzetti di plastica da scrivania. Quando la donna se ne esce, la nostra collega ci guarda e ci fa: “Avete capito?”. Nemmeno una parola. “Due di noi devono andare in Olanda la settimana prossima. C’è da incontrare un cliente”. Panico.
Il mio amico, che comunque un po’ di inglese lo sapeva, il giorno dopo si è dato malato, per poi licenziarsi nei mesi successivi. L’altro ragazzo nello stanzino diede buca non mi ricordo più per quale motivo. Io non avevo il coraggio di fare una vigliaccata simile, anche se ci sono stato molto vicino. Forse, semplicemente, non ero abbastanza sveglio per capire che era il caso di mollare.
Ho passato una settimana a leggermi il dizionario italiano-inglese/inglese-italiano e a studiare fascicoli su fascicoli. La notte prima della partenza l’ho passata insonne. Me ne stavo lì, a fissare la valigia pronta, ad escogitare uno stratagemma per salvarmi. Niente di niente.
La mattina dopo mi ritrovai in aeroporto, assieme alla mia collega e al nostro capo, con in mano un biglietto per Amsterdam, in procinto di vendere componentistica di non so bene cosa, a non so bene chi.
Subito dopo il decollo, mentre guardavo l’aereo entrare nelle nuvole, forse per quella sensazione di essere in Paradiso, mi sentii costretto a confessare tutto al mio capo; dopotutto non volevo far fare figuracce a lui e alla sua azienda. Lui fu molto comprensivo.
«Sei licenziato». Ok. 
«Cerca di fare meno danni possibili». Ok.
Amsterdam, stavo arrivando.

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